ASviS chiama. Chi risponde?

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ASviS, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, qualche settimana fa ha suggerito alle forze politiche alcune idee per portare avanti lo sviluppo sostenibile nel nostro Paese.

L’idea è stata quella di fare sì che queste idee fossero inserite nei programmi elettorali dei vari partiti e movimenti, nella convinzione che il concetto di “sviluppo sostenibile” possa essere condivisa anche da chi politicamente e ideologicamente è agli opposti estremi.

Del resto l’Italia nei prossimi anni disporrà di ingenti risorse che deriveranno, oltre che dal PNRR, da finanziamenti provenienti dal bilancio nazionale e da quello europeo e saranno dunque anni fondamentali per l’affermazione (o meno) di uno sviluppo economico, ambientale e sociale davvero sostenibile.

Le elezioni politiche del prossimo 25 settembre 2022, neanche a farlo apposta, ricorrono tra l’altro nel settimo anniversario dell’approvazione dell’Agenda 2030 dell’ONU: chissà che questa coincidenza possa servire a sensibilizzare chi governerà l’Italia nei prossimi anni. Per ora sembra che in generale le forze politiche coinvolte nelle prossime elezioni abbiano accolto le proposte di ASviS se non proprio tutte con entusiasmo – questo era del resto impensabile – almeno con la volontà di tenerne in parte conto.

Queste, a grandi linee, le dieci proposte di ASviS (per chi volesse approfondire, è facile trovarle su Internet nella loro versione integrale).

  1. Coerenza delle politiche per lo sviluppo sostenibile, cioè effettiva applicazione dei nuovi principi costituzionali legati allo sviluppo sostenibile e alle future generazioni e garantire l’attuazione del PNRR nei termini concordati con l’Unione Europea.
  2. Disegnare il futuro partendo dal presente, con la creazione di un istituto di studi sul futuro, per evitare di arrivare impreparati, vulnerabili e fragili a futuri shock sistemici.
  3. Giustizia, trasparenza e responsabilità, consolidare le riforme avviate per un sistema giudiziario equo, moderno ed efficiente. Promuovere la cultura della rendicontazione e rendere obbligatoria la valutazione ambientale strategica in tutti i provvedimenti legislativi.
  4. Parlamento sostenibile, integrando lo sviluppo sostenibile nella ricomposizione delle Commissioni parlamentari e rinnovando la composizione di un intergruppo per lo sviluppo sostenibile.
  5. Rendere più sostenibili ed equi i territori, con un sistema multilivello di strategie e di agende territoriali per lo sviluppo sostenibile e assicurando l’approvazione della legge sulla rigenerazione urbana già predisposta dal Senato, basata sull’arresto del consumo del suolo.
  6. Impegnarsi per la giusta transizione ecologica, impegnandosi tra l’altro a rispettare l’obiettivo europeo della riduzione almeno del 55% delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030.
  7. Ridurre tutte le disuguaglianze, garantendo la parità di genere nelle politiche e nell’allocazione delle risorse economiche, creando piani di lavoro per i giovani, potenziando l’offerta formativa, valorizzando il ruolo del Sud come cerniera tra Europa e Mar Mediterraneo, considerando la transizione digitale come fattore abilitante per accelerare le sfide sociali e ambientali del nostro tempo.
  8. Non lasciare nessuno indietro, contrastando la crescente povertà dei redditi, migliorando la gestione del Reddito di Cittadinanza, riformando l’esistente sistema di welfare, migliorando la qualità dell’istruzione e definendo i livelli minimi di offerta culturale a livello territoriale.
  9. Avere un approccio integrato alla salute, insendo l’approccio “One Health” ispirato al principio di una salute eco-sistemica integrata, favorendo l’integrazione delle scienze ambientali ed ecologiche con la medicina umana e ambientale, promuovendo la medicina di comunità e la sanità del territorio, rafforzando la capacità di prevenzione e resilienza di fronte alle crisi sanitarie nel rispetto del valore universale della sanità pubblica.
  10. Garantire diritti e pace, rafforzare cooperazione e democrazia, nel rispetto e nella tutela dei diritti inalienabili e di cittadinanza con politiche di inclusione e integrazione sociale, sanzionando ogni tipo di discriminazione coerentemente con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottando politiche di lungo termine per definire il ruolo dell’immigrazione nel futuro demografico italiano, in termini di ingresso, politiche di accoglienza e di procedure per la concessione della cittadinanza, coerentemente con gli impegni europei.

Ora, siamo tutti d’accordo che ASviS non è che sia detentrice della verità assoluta. Ma è fuori discussione che le teste pensanti che hanno elaborato questi consigli sanno quello che dicono, sono tutte persone che questi argomenti li masticano quotidianamente.

Detto questo, ora la palla passa alla politica, chi governerà nei prossimi anni avrà grandi possibilità di incidere sul futuro – sostenibile o meno – del nostro Paese. Ma l’appello, attenzione, riguarda anche tutti noi cittadini: abbiamo il compito di vigilare che tutto vada per il meglio e di mostrare un maggiore impegno verso la sostenibilità. Speriamo di essere all’altezza del compito, così importante, che ci viene assegnato non da ASviS, ma dalla storia.

Pubblicato a firma “Lupo Solitario” sul magazine CSROggi n. 25 (anno 7 n. 3/4) settembre 2022

Medtronic, nuove sfide nel nome dell’innovazione e della sostenibilità

In evidenzaMedtronic, nuove sfide nel nome dell’innovazione e della sostenibilità

«Il nostro obiettivo è diventare social contributor – sottolinea Armida Gigante, Sustainability, Open Innovation & Stakeholder Experience Sr Manager Medtronic Italia – e per farlo abbiamo identificato cinque progettualità che verranno condivise da board, dipendenti e stakeholder e che ci consentiranno di procedere nei nostri intenti».

Fin dalla fondazione, Medtronic mette al centro della sua attenzione l’accesso alle cure da parte di tutti. Con l’obiettivo di garantire sempre più un’innovazione di tipo sociale, l’azienda creata a Minneapolis nel 1949 e oggi leader mondiale in tecnologia e servizi medicali è alla costante ricerca di soluzioni nuove, innovative, digitali per il paziente e per la comunità che lo accoglie, in attuazione del concetto di Community engagement.

Fare sostenibilità, per Medtronic, non significa dover fare qualcosa di più rispetto a prima, significa aggiungere un punto di vista diverso, che va ad aggiungersi a quelli utilizzati normalmente, in genere concentrati sul solo aspetto della fattibilità economica. Il fatto di “aggiungere” un’attenzione sociale a quello che si fa – è l’idea che si porta avanti in Medtronic – significa “semplicemente” dare ai progetti eseguiti un impatto diverso, più significativo dal punto di vista sociale e comunitario.

Per poter fare questo è necessario coinvolgere quante più persone possibile per riuscire, come si dice adesso, a “scaricare a terra” iniziative sostenibili concrete, che possano toccare il business: negli ultimi mesi almeno un dipendente di Medtronic Italia su quattro ha avuto a che fare con progetti pensati in questa direzione.

Ne parliamo con Armida Gigante, Sustainability, Open Innovation & Stakeholder Experience Sr Ma- nager Medtronic Italia.

Dottoressa Gigante, l’impegno sostenibile di Medtronic è noto da anni. Quali sono le novità del vostro presente impegno?

«La novità è che l’ultimo G20 ha di fatto certificato l’entrata dell’healthcare nell’Agenda ONU, riconoscendo l’importanza di intraprendere la strada vero sistemi sanitari sempre più sostenibili. È quanto noi di Medtronic abbiamo compreso da tempo e che oggi cerchiamo di far capire in modo più esteso possibile all’interno della nostra realtà aziendale e presso tutti coloro che hanno a che fare, a vario, titolo con essa».

Qual è il percorso da voi intrapreso in attuazione di questo obiettivo?

«Abbiamo iniziato a far crescere la sensibilità delle persone sul fatto che ognuno, con il proprio comportamento, può dare un contributo prezioso dal punto di vista della sostenibilità. Per farlo abbiamo dovuto anzitutto pervenire a una definizione univoca di sostenibilità, interessando tutte le realtà coinvolte nel nostro percorso – dal board ai dipendenti a agli stakeholder – per capire le diverse sfaccettature in cui si pensa debba consistere l’intervento sostenibile dell’azienda e interpretare le diverse visioni in relazione alle priorità che ci poniamo per il futuro».

A quale conclusione siete pervenuti?

«Questo lavoro ci ha portati a conciliare ancor più innovazione e sostenibilità, perché ci siamo resi conto che anche a livello di business l’innovazione è la chiave che coinvolge maggiormente le persone e le distoglie dal pensare alla sostenibilità come a qualcosa che deve essere fatta in modo individuale, o comunque “a compartimenti stagni”. Abbiamo per questo deciso di puntare su un modo di operare che riteniamo oggi fondamentale, lo ribadisco, che è quello del sempre maggiore coinvolgimento delle persone».

Qual è il vostro approccio in questo senso?

«È quello dell’One health, che consiste nel puntare con decisione su salute e connessioni. Il che per noi significa mettere sempre più la persona al centro e rendere le cure sempre più accessibili ed eque senza dimenticare l’importanza della salute dell’ambiente e del mondo nel suo complesso. E significa in particolare, fare leva sulla prevenzione e sugli stili di vita, lavorare per il benessere della persona prima che questa arrivi al momento acuto della malattia. Lo possiamo fare, lo vogliamo fare, con l’aiuto delle nuove tecnologie, con cui è possibile accelerare l’integrazione e la connessione delle cure per le più importanti malattie croniche, tecnologie che oggi si identificano con intelligenza artificiale, robotica, 5G e sensoristica. La nostra missione aziendale promuove il principio di “good citizenship” che si realizza mettendo tecnologia, sapere e persone a disposizione della comunità, attraverso un’azione quotidiana di “ingegnerizzazione dello straordinario”».

Dal punto di vista della “messa a terra” quali sono gli obiettivi che vi prefissate per il futuro?

«Per noi le priorità sono quelle di realizzare un healtcare più sostenibile e inclusivo e gli obiettivi che ci siamo dati sono quelli di diventare carbon neutral entro il 2030, di aumentare l’accesso alle cure e di accrescere l’attenzione a concetti come inclusion e diversity di genere e di etnia, creando una cultura che coinvolga persone, azienda e comunità e che sia tale da eliminare le barriere che impediscono la piena espressione del potenziale e da consentire alle minoranze di avere un posto ai nostri tavoli di lavoro».

Per raggiungere questi obiettivi, si è accennato prima, avete bisogno di “uscire” dall’azienda e interagire con il mondo esterno. Come attuate questa esigenza?

«Noi parliamo di viaggio sostenibile di Medtronic IN Italia, con la “IN” grande perché vogliamo essere presenti sul territorio e sul mercato non solo con la nostra parte di vendita ma anche come protagonisti di una visione nuova, rispettosa della salute delle persone e dell’ambiente in cui queste vivono. Sono tante le iniziative che ci hanno visto fin qui impegnati per un’azione di impresa più ampia. Siamo partiti con una profonda azione di ascolto degli stakeholder con la “Value Based Agenda” e siamo stati promotori di “Donne Leader in Sanità”, con cui abbiamo voluto stimolare la presenza di donne nel nostro settore. Abbiamo poi creato “Open Innovation Lab”, uno spazio di connessione tra Impresa, Ricerca e Università, oltre che un laboratorio in cui valorizzare appieno i giovani talenti. Questo ci permette di entrare in contatto anche con il mondo delle start-up, realtà che hanno un modo di lavorare che va al di fuori delle regole che sono proprie di una grande corporation e quindi sono portatrici di una freschezza e di un’agilità di risposta agli stakeholder più veloce. A tutto ciò si aggiunge la costante collaborazione che manteniamo con le Associazioni Pazienti per creare consapevolezza e stimolare la prevenzione e l’attività di volontariato eseguite attraverso Medtronic Foundation».

Sembra di capire che per voi gli stakeholder sono una risorsa destinata a diventare sempre più importante …

«È proprio così, per noi è un punto fermo il fatto che in ambito di innovazione e sostenibilità sia necessario sviluppare un’abilità organizzativa che abbia nell’ascolto degli stakeholder un elemento centrale, chiave. Per questo pensiamo che la nostra capacità debba essere quella di intercettare i loro bisogni, preziosi indicatori dei cambiamenti che sono via via in corso».

Quale “viaggio” avete pensato per diventare social contributor?

«Vogliamo pervenire a una nuova abilità organizzativa grazie all’utilizzo di un’innovazione che sia del tutto sostenibile. Dall’ascolto degli stakeholder, e da quello dei nostri dipendenti, abbiamo identificato cinque progettualità che ci consentiranno di procedere nei nostri intenti nei prossimi mesi. I progetti che abbiamo identificato si concretizzeranno in Hackaton, cioè contest, occasioni create all’interno dell’azienda, con la partecipazione dei dipendenti o con il coinvolgimento di start-up, istituti di ricerca, università, che si confronteranno intorno a cinque challenge specifiche. Lavoreremo per migliorare il modo in cui operiamo dal punto di vista della produzione, per risolvere problematiche di accesso alle cure legate alle cronicità di cui ci occupiamo, per ridurre gli sprechi di prodotti in scadenza, per migliorare con l’Intelligenza Artificiale la gestione del magazzino. Infine, progetteremo progetti di plant awareness per amplificare il contributo alla sostenibilità ambientale dell’approccio lean».

In attuazione di questo progetti, come pensate di riuscire a far dialogare soggetti così diversi tra loro?

«Non è sempre facile gestire l’incontro di persone che hanno poco in comune tra loro, ma c’è da dire che più sono lontane e più, se sei in grado di coordinarle, riesci a ottenere chiavi di letture nuove, che nascono da uno sforzo corale che mira a un obiettivo di responsabilità sociale condiviso e fortemente voluto da tutti. Per quanto riguarda l’aspettodellaformazione, abbiamo pensato di arricchire la Medtronic Accademy con una Masterclass di Design Thinking e Agile, con cui sviluppare il talento e valorizzare l’unicità delle persone. Per abilitare il cambiamento e potenziare la nostra capacità di realizzare il futuro che abbiamo disegnato, faremo infine leva su una governance più dinamica e inclusiva, su strumenti digitali e su spazi fisici e virtuali realizzati con Smartmed e Open Innovation Lab, con il contributo di un ecosistema composto da Università, Istituti di ricerca e start-up».

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 25 (anno 7 n. 3/4) settembre 2022


Genova, con Hitachi Rail la rivoluzione della smart mobility parte da qui

In evidenzaGenova, con Hitachi Rail la rivoluzione della smart mobility parte da qui

Il capoluogo ligure è stato scelto per la sperimentazione dell’app 360Pass GoGoGe messa a punto da Hitachi Rail che prevede l’interconnessione delle varie modalità di trasporto cittadine – pubbliche e di noleggio privato – così da agevolarne in modo vantaggioso sostenibile la fruizione da parte dei cittadini.

Parte da Genova la rivoluzione della mobilità cittadina. Il capoluogo ligure è infatti teatro del progetto messo in campo da Hitachi Rail – il gruppo ferroviario integrato che è leader nel settore della mobilità – che prevede l’utilizzo di un’app di smart ticketing chiamata Go-GoGe che consente di accedere, attraverso il proprio smartphone, a ogni modalità di trasporto presente in città utilizzando sensori bluetooth che mettono in connessione treni, autobus, funicolari, cittadini e consentono anche di noleggiare veicoli o scooter elettrici e di pagare in parcheggi.

Quello che riguarda la città di Genova è un sistema di accesso ai mezzi pubblici che non è finora presente in nessun’altra città del mondo, ma che potrà essere presto esportato anche nei centri cittadini più popolosi e complicati dal punto di vista dei collegamenti che fanno capo alla mobilità.

La nuova Smart Mobility suite di Hitachi sviluppata in partnership con l’operatore dei trasporti pubblici AMT e con il Comune di Genova, dallo scorso maggio collega via bluetooth 663 autobus e 2.500 fermate cittadine dell’autobus, la linea metropolitana – utilizzata da circa 15 milioni di persone ogni anno –, due funicolari, una ferrovia a cremagliera, 10 ascensori pubblici e due tratte suburbane di circa 50Km di autobus. Ma non solo, con GoGoGe di Hitachi è anche possibile, su tutto il territorio della città di Genova, noleggiare un’auto elettrica, pagare il parcheggio e trovare uno scooter elettrico.

Lanciata in via sperimentale, l’app sarà testata da un gruppo pilota di mille cittadini per un periodo di sei mesi prima di essere, se tutto andrà per il meglio, resa disponbilie per ogni utente interessato.

Una vera e propria rivoluzione nel modo di viaggiare, che connette trasporto pubblico e trasporto privato a noleggio e che apre nuovi scenari e aumenta la qualità della vita dei cittadini che utilizzano mezzi di trasporto non propri per gli spostamenti quotidiani.

I vantaggi per i cittadini

L’app messa a punto grazie alla tecnologia della nuova suite smart mobility di Hitachi, ovvero Lumada Intelligent Mobility Management, permette anzitutto ai cittadini di non dover acquistare biglietti cartacei per l’uso dei mezzi. Consente inoltre di non dover scaricare varie app per l’acquisto dei ticket di ciascuna modalità di trasporto utilizzata.

L’utilizzo dell’app è del tutto comoda, non è nemmeno necessario estrarre lo smartphone dalla propria tasca: i sensori utilizzati da 360 Pass riconoscono lo smartphone del passeggero e registrano la salita e la discesa dal mezzo, calcolandone il tempo di utilizzo.

Un sistema che consente al cittadino di risparmiare. Avendo registrato tutti gli spostamenti e gli utilizzi dei mezzi, l’app di Hitachi Rail è in grado di calcolare e adottare la migliore tariffa di ciascuna giornata. Cioè, ad esempio, verifica se convenga considerare la tariffa a biglietto per corsa singola o, ad esempio, quella che corrisponde al biglietto con validità giornaliera, nel caso in cui siano state effettuate più corse, applica la tariffa più conveniente per il viaggiatore.

A tutto ciò, 360Pass fornisce informazioni in tempo reale sulla situazione del trasporto in ogni preciso momento, e offre informazioni personalizzate sui viaggi con trasporto pubblico che richiedano le opzioni più economiche e veloci. Un aiuto prezioso è quello che riguarda l’affollamento o meno dei mezzi che si vorrebbero prendere in modo tale che sia possibile scegliere quelli che al momento sono meno affollati. Un’accortezza quanto più preziosa in questo momento storico che, a causa del Covid 19, si può avvertire l’esigenza di evitare assembramenti che potrebbero creare ansia o preoccupazione.

L’impatto sui trasporti e sui loro operatori

Anche Genova, città che conta circa 750mila abitanti, in ambito di trasporti urbani si trova quotidianamente ad affrontare le problematiche e le sfide che sono proprie delle grandi città del mondo: ovviare alle difficoltà generate dal traffico congestionato, tenere sotto controllo le emissioni inquinanti e mantenere nel tempo una qualità dei servizi che sappia rispondere alle esigenze e alla richiesta di sicurezza dei cittadini.

La tecnologia di 360Pass permette agli amministratori di mettere a disposizione dei cittadini un servizio più efficiente, oltre che sostenibile, eliminando i surplus di costi derivanti dalla mancata possibilità di coordinare i vari vettori coinvolti nel trasporto cittadino. Il coordinamento con il trasporto automobilistico o motociclistico a noleggio contribuisce inoltre a ridurre l’utilizzo dei mezzi privati, con un grande beneficio della comunità e un conseguente aumento della qualità della vita di coloro che vivono all’interno non solo dell’area metropolitana ma anche delle zone della Liguria direttamente interessate.

Come funziona 360Pass

Attraverso gli oltre 7mila sensori bluetooth installati è stata in pratica creata una mappa elettronica che è in grado di leggere in qualsiasi momento la situazione dei trasporti così da consentire agli operatori di ottimizzare i servizi e gli orari creando un sistema capace di gestire i picchi e le diminuzioni dell’utenza. Una serie di informazioni che mettono i gestori in condizioni di identificare gli eventuali fattori che potrebbero scoraggiare l’utilizzo del trasporto pubblico: congestione, affollamento, emissioni, gap di servizio…

Oltre alla facilità offerta ai cittadini di acquisto del biglietto – che concettualmente non esiste più, perché di fatto quella che viene applicata è la tariffa più adatta a ogni singola situazione – gli operatori del trasporto pubblico godono del grande vantaggio di poter tenere sotto controllo i flussi di traffico e la qualità del servizio offerto, così da poter intervenire in modo tempestivo là dove dovesse sorgere una problematica o si dovesse provvedere ad affrontare situazioni particolari, come concerti o partite allo stadio, che dovessero interessare parti più o meno estese della città.

La possibilità di “leggere” le emissioni può favorire, soprattutto nelle aree più interessate e bisognose, l’adozione di soluzioni alternative come quella dell’elettrificazione dei servizi di autobus e delle auto a noleggio.

Il perché della scelta di Genova

Come mai Hitachi Rail ha scelto proprio Genova per sperimentare in prima mondiale questa piattaforma avveniristica e destinata a cambiare radicalmente la fruizione dei mezzi di trasporto cittadini pubblici e privati (per quanto riguarda il noleggio)? La risposta a Domenico Lanciotto, General Manager Italia e Centro Est e Sud Europa della LoB Rail Control di Hitachi Rail: «Genova è stata scelta non solo perché il suo sistema di mobilità urbana è particolarmente complesso e articolato, ma anche perché l’amministrazione cittadina e AMT, l’Azienda Mobilità e Trasporti del capoluogo ligure, si sono mostrate particolarmente proattive e orientate all’innovazione e alla mobilità sostenibile».

(Domenico Lanciotto, General Manager Italia e Centro Est e Sud Europa della LoB Rail Control di Hitachi Rail)

Dal punto di vista dell’amministrazione comunale di Genova, l’assessore alla Mobilità integrata, Matteo Campora, sottolinea: «Ci auguriamo che la Mobility as a service (MaaS), che abbiamo chiamato per l’occasione GoGoGe, diventi presto la normalità così da poter raggiungere l’obiettivo che noi tutti ci dobbiamo prefiggere, che è quello di lasciare il mondo in condizioni migliori di come l’abbiamo trovato. Il progetto che stiamo sperimentando nella nostra città mira infatti a incoraggiare la transizione verso una mobilità intermodale che riduca l’impronta del carbone nei viaggi, facendo leva sui bisogni degli utenti fornendo un sistema di mobilità integrato pubblico-privato, che interconnette anche a servizi come il car-sharing, l’e-scooter e i parcheggi cittadini.

Marco Beltrami, presidente di AMT ha aggiunto: «È un progetto che ci permette di offrire ai nostri utenti un’esperienza di viaggio davvero unica. La tecnologia che sta alla base di GoGoGe consente il facile accesso a bordo, senza che sia necessario compiere alcuna azione: né timbrare un biglietto né far scorrere o appoggiare la credit card. Ci consente inoltre di seguire il percorso dei nostri clienti attraverso i differenti mezzi di trasporto, ottenendo un’indicazione preciso del loro tragitto completo, dalla partenza all’arrivo. Una soluzione tecnologica che pone Genova all’avanguardia della smart mobility: quello che viene oggi testato qui da noi, domani potrà essere applicato in molte altre città del mondo e questo ci riempie d’orgoglio».

Un altro progetto che vede Hitachi Rail protagonista in Liguria

Con ERTMS i treni sono più sicuri, veloci e puntuali

Oltre alla sperimentazione e alla prossima attuazione in fase definitiva dell’app 360Pass per la smart mobility cittadina, Genova e la Liguria sono interessate da un altro grande progetto che ha Hitachi Rail come capogruppo mandatario. Si tratta dell’estensione del sistema ERTMS (European Rail Transport Management System) alla rete ferroviaria regionale ligure.

«Il raggruppamento di imprese che vede Hitachi in primo piano per la progettazione e la realizzazione del piano europeo che riguarda in particolare un innovativo sistema di segnalamento – spiega Domenico Lanciotto –, ha ottenuto il lotto “Centro Nord” che è caratterizzato da 1.885 Km di linee, per un importo pari a 1,3 miliardi di euro di investimento. In Liguria godranno i questi interventi innovativi in particolare le linee ferroviarie Ventimiglia-Genova Voltri, Genova Principe-Sestri Levante, Sestri Levante-La Spezia».

L’ERTMS corrisponde al 50% del primo obiettivo indicato dall’Unione Europea per la realizzazione di progetti ad alta tecnologia finanziati dal PNRR. In pratica, si tratta di trasferire alle linee “ordinarie”, comprese quelle per il trasporto regionale, i vantaggi derivanti dalla tecnologia già sperimentati sull’Alta Velocità. Quali saranno in vantaggi per i viaggiatori? «Cambia prima di tutto la percezione del livello di sicurezza – sottolinea Lanciotto – dal momento che il sistema prevede la continua e completa supervisione dei treni grazie all’utilizzo di apparecchiature di terra e l’attivazione automatica di funzioni di protezione del treno come ad esempio la frenatura d’emergenza in situazione di pericolo. Questo nuovo sistema consente, inoltre, di avere benefici sulla facilità di fruizione dei servizi, visto che permette di far circolare più treni sulle singole linee con maggiora affidabilità, velocità e puntualità. Dal punto di vista dell’offerta dei servizi, infine, si crea il grande vantaggio dell’armonizzazione dei diversi sistemi di controllo dei treni nei Paesi europei, aspetto che indice molto sull’aspetto della sicurezza ma anche su quello della qualità dell’offerta rivolta ai passeggeri».

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 25 (anno 7 n. 3/4) settembre 2022

Sogno doppio

In evidenzaSogno doppio

La notte scorsa ho fatto un sogno che fino a un certo punto è stato esaltante, illuminante, rassicurante, ma che nella sua seconda parte si è rilevato agghiacciante. Ho sognato di vivere in una società del futuro, in una città piena di verde, giardini, aiuole. Con pochissime automobili, silenziose e senza tubi di scappamento. Con tantissimi mezzi pubblici, di superficie e no, biciclette, monopattini e altri mezzi poco ingombranti e non inquinanti.

Le persone camminavano felici, con un’aria serena e appagata negli occhi. Già, perché ho scoperto di lì a poco che ognuna di esse, in quel mio sogno, era collegata a un cervello elettronico di ultima generazione capace di raccogliere, accumulare e redistribuire l’energia prodotta da ciascun cittadino nello svolgimento della sua vita quotidiana.

Chissà chi è stato il primo ad avere un’idea di questo tipo. Ogni giorno ognuno di noi produce una quantità di energia che varia a seconda di quello che facciamo. In molti casi è una quantità minima, ma se messa insieme a quella degli altri miliardi di persone che vivono sulla terra rappresenta un patrimonio energetico immenso, fin impossibile da calcolare e imbrigliare.

Ma qualcuno, in quel mondo da me sognato, ci ha pensato e ci è riuscito. Azioni all’apparenza semplici come camminare, pedalare, salire e scendere le scale, remare, stirare, lavorare il legno o il ferro, servire al tavolo… sono un patrimonio di energia, in buona parte utilizzata ma anche fortemente dispersa.

Energia naturale, pulita, che non inquina, facilmente reperibile, avendo a disposizione la tecnologia in grado di salvarla e rimetterla in circolo.

Ecco, nel mio sogno questa energia veniva trasferita a un cervellone unico che poi provvedeva a redistribuirla per gli usi più comuni: corrente elettrica, riscaldamento, trazione, uso domestico e industriale…

Quale soddisfazione il sapere che mentre vivi la tua vita di tutti i giorni contribuisci a fornire energia al resto della popolazione del pianeta, senza dover più dipendere da materie prime inquinanti e costose, gestite da pochi privilegiati che possono goderne e distribuirle a proprio piacere e, soprattutto, tornaconto. Finalmente una parità per il genere umano, tutti contribuiscono e godono in modo uguale, la fine delle diseguaglianze, l’addio ai concetti di ricchezza e povertà. Tutti felici e sereni, per le strade di quella fantastica città.

Non so perché e quando il bel sogno si è trasformato in incubo. È stato un cambiamento improvviso e inaspettato. Era notte, una persona mi si è avvicinata, mi ha preso per mano e mi ha detto di seguirla. Mi ha condotto davanti a un grande palazzo illuminato a giorno, nemmeno una finestra aveva la luce spenta e si sentiva musica ad alto volume e gente che brindava e festeggiava.

Abbiamo aperto una porta, sceso una scala, e ci siamo ritrovati in una semibuia e fredda cantina. Uno spazio enorme, con centinaia di cyclette collegate a fili elettrici. Il rumore era assordante, l’odore di muffa insopportabile, gli sguardi dei pedalatori, incatenati ai cicli, fissi e pieni di sofferenza. «Chi sono e che cosa fanno?», ho chiesto. «Sono i nuovi schiavi, producono energia per quelli del palazzo di sopra», mi ha risposto la figura amica.

Mi sono svegliato di colpo e non sono più riuscito a dormire per tutto il resto della nottata.

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 25 (anno 7 n. 2) marzo-aprile 2022

Edison, che cosa vuol dire essere leader nella transizione energetica

In evidenzaEdison, che cosa vuol dire essere leader nella transizione energetica

«Il nostro impegno è quello di costruire sistemi energetici a sostegno dello sviluppo delle economie, anche tenendo conto delle tre priorità indicate dall’ultimo G20, andato in scena lo scorso ottobre 2021 a Roma: People, Planet, Prosperity» sottolinea Barbara Terenghi, Chief Sustainability Officer della più antica società energetica d’Europa.

Creare un futuro fatto di energia sostenibile: questo il fulcro su cui poggia la mission di Edison, la più antica società europea nel settore dell’energia, una tra le principali società energetiche in Italia e in Europa.

Un vasto e variegato insieme di impegni, attuazioni sul territorio, soluzioni e progetti che bene sono stati illustrati nella Dichiarazione non Finanziaria 2021, documento del cui contenuto parliamo con Barbara Terenghi, Chief Sustainability Officer di Edison.

Dottoressa Terenghi, nella Dichiarazione non Finanziaria 2021 sottolineate che il vostro obiettivo è “Essere leader nella transizione energetica e operatore responsabile”. In quale modo?

«Abbiamo costruito la nostra Dichiarazione non Finanziaria così che possa testimoniare in modo ampio e sistemico il nostro impegno e questa frase sintetizza bene quali sono i nostri intendimenti. Edison sposa gli obiettivi dello sviluppo sostenibile – facendo ovvia- mente riferimento all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e alle logiche sottese ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile – in riferimento al suo scenario di riferimento che è quello della transizione energetica, che si inquadra nella dinamica più ampia della transizione ecologica. Il nostro impegno è quello di costruire sistemi energetici a sostegno dello sviluppo delle economie, anche tenendo conto delle priorità indicate dall’ultimo G20, andato in scena lo scorso ottobre 2021 a Roma: “People, Planet, Prosperity”. Anche in questo momento, difficile dal punto di vista dei rapporti internazionali, non dobbiamo dimenticare questa nostra mission e dobbiamo continuare a fare la nostra parte».

In che cosa si concretizza l’intenzione di “fare la propria parte”?

«Vuol dire fare sì che i sistemi energetici che Edison contribuisce a realizzare e a sostenere nel tempo siano ESG compliance. Il nostro impegno di sostenibilità nei riguardi dell’ambiente si traduce nel fatto che lavoriamo perché l’impatto dei sistemi energetici sul clima e più in generale sull’ambiente sia minimizzato e perché questi sistemi possano essere sostenuti da tecnologie sempre più evolute e da modelli di gestione sempre più efficienti. In riferimento agli aspettti sociali vogliamo che l’energia costituisca un elemento di spinta non solo per le economie dei Paesi ma anche per quella di famiglie e imprese, in una logica di sostenibilità che tenga in forte considerazione anche la parte relativa al consumo. Infine, ci preoccupiamo che la governance di tutti questi processi energetici avvenga con grande trasparenza, con grande rispetto delle regole e grande solidità degli operatori».

Lei ha fatto cenno al difficile momento storico che stiamo attraversando. Ritiene che, per la situazione di emergenza energetica in cui ci troviamo, si corra il rischio di fare passi indietro dal punto di vista della sostenibilità applicata alla produzione e alla distribuzione dell’energia?

«C’è molto dibattito su questo. La maggior parte degli analisti converge su una lettura per cui, paradossalmente, questa situazione di crisi accelererà alcune dinamiche della transizione energetica perché ci porterà a considerare una situazione in cui l’autonomia energetica, quanto meno a livello di grandi regioni, diventerà strategica. Poi ci sarà da affrontare un tema importante legato a come sostenere i costi di questa transizione, questo sarà un passaggio fondamentale. Da questo punto di vista bisogna dire che alcune dinamiche sono già evidenziate, compresa quella della finanza privata che ha iniziato a intercettare massivamente gli investimenti sostenibili. È chiaro che bisognerà fare un esercizio di sostenibilità economica oltre che di strategia di innovazione e di ricerca, perché una gran parte del lavoro di transizione andrà fatto con tecnologie che oggi sono ancora ai primordi, anzi alcune di queste non sono ancora state completamente delineate».

Andiamo ad approfondire l’aspetto legato ai quattro assi su cui si sviluppa il vostro impegno di sostenibilità. Cominciamo dal primo, quello legato al cambiamento climatico…

«Il nostro primo impegno è mettere in campo soluzioni, produzioni e consumi che possano contribuire significativamente a raggiungere la neutralità carbonica e delle emissioni dei gas clima-alteranti. Il che significa anzitutto contribuire attraverso una serie di tecnologie che noi chiamiamo low-carbon, che abbiano fattori emissivi molto limitati e siano al tempo stesso al servizio della flessibilità del sistema. A questo proposito per esempio, stiamo ultimando la realizzazione di due centrali a ciclo combinato che saranno gli impianti più efficienti d’Europa. Ma abbiamo tanti progetti per il futuro e buona parte dei nostri investimenti riguarda tecnologie in grado di ridurre sempre più le emissioni di CO2».

E per quanto riguarda le energie rinnovabili, che cosa state facendo e avete in programma per il futuro?

«È l’altro grande campo di intervento. Noi abbiamo chiuso l’anno 2021 con due gigawatt di rinnovabili, confermandoci come il secondo produttore eolico del Paese oltre che un significativo produttore idroelettrico a livello nazionale. Siamo inoltre impegnati nello sviluppo del fotovoltaico e abbiamo un piano che prevede di raggiungere 5 GW di nuova capacità rinnovabile installata al 2030, accompagnati da 1 GW di stoccaggio e flessibilità, che include sistemi di pompaggio idroelettrici e batterie, per garantire ulteriore sicurezza e adeguatezza del sistema».

Il secondo punto riguarda il capitale umano e l’inclusione. Da questo punto di vista, qual è il vostro impegno?

«Edison è un operatore storico, siamo in vita da 140 anni e la nostra attenzione al capitale umano è l’antesignana di tutti i temi di cui si parla oggi in ambito ESG, CSR, ecc. I nostri 5mila dipendenti sono la forza e il fattore più competitivo dell’azienda che, come risulta chiaramente dalle analisi di clima che noi realizziamo, è d’accordo all’88% sulle strategie di sostenibilità e di transizione energetica fin qui intraprese. La nostra è una delle aziende all’avanguardia su temi come formazione, sensibilizzazione e soprattutto welfare. Un altro fattore su cui stiamo lavorando e che consideriamo di fondamentale importanza è quello della diversity e del genere, con progetti dedicati come ad esempio la mentorship e la leadership. È una traiettoria di lungo termine, che parte da lontano, si può dire che quello sulle risorse umane sia un tema storico della società».

Molto importante, per voi, è ciò che sta al vostro esterno, cioè fornitori, territorio e clienti. E stiamo parlando del terzo asse…

«La Dichiarazione non Finanziaria 2021 rivela che al 94% i nostri fornitori sono italiani e questa è già una precisa indicazione. E non stiamo parlando solo dei grandi fornitori, ma anche di quel ricco tessuto di imprese costituito da piccoli fornitori locali che sono fondamentali per la realizzazione dei nostri cantieri. Questa è per noi una cinghia di trasmissione fondamentale cui prestiamo grande attenzione perché se i nostri fornitori stanno bene sta bene anche tutta l’azienda. I territori sono molti importanti, per noi, perché da loro passa il tema importante dell’accettabilità delle infrastrutture energetiche. Vogliamo essere operatori affidabili, che oltre a progettare al meglio le infrastrutture restano sul territorio per mantenerle in efficienza e, al contempo, si impegnano ad attuare politiche di valorizzazione paesaggistica e naturale e di co-progettazione con le comunità. Riteniamo che questa sia la differenza tra gli operatori che hanno un’ottica più speculativa, di breve termine, e quelli che invece sanno che cosa vuol dire stare sullo stesso territorio da decine di anni».

In relazione al territorio, la produzione di energia rinnovabile è e sarà sempre più concentrata in particolare nel Sud dell’Italia. Questo potrà contribuire a dare una sterzata all’economia del nostro meridione?

«Sicuramente sì, è un’occasione preziosa per tutto il Sud Italia. Negli ultimi anni, per arrivare a raggiungere gli obiettivi rinnovabili, sono state messe in campo politiche di incentivazione che hanno dato campo libero a progetti messi in atto senza creare una vera e propria filiera industriale, per cui ad esempio le pale eoliche e i pannelli fotovoltaici si comprano dalla Cina, non si è creato un vero valore né per il Paese, né per il singolo territorio. Le Regioni oggi chiedono alle aziende che producono energia un impegno maggiore, vogliono soluzioni integrate e legate all’economia del territorio, una richiesta che riteniamo condivisibile».

E infine ci sono i clienti, qual è il vostro approccio sostenibile nei loro confronti?

«I clienti sono l’ultimo anello, ma non certo per importanza, della catena. I nostri clienti sono le famiglie, le imprese ma anche la pubblica amministrazione. Con questi ultimi lavoriamo per creare partnership sui temi della decarbonizzazione e per costruire strategie di medio termine che consentano non solo di rendere più efficienti i loro consumi, ma anche di renderli compatibili climaticamente. Anche con i clienti “piccoli” ci impegniamo con costanza per offrire loro offerte quanto più “verdi” possibile. Per noi l’avere un contatto diretto, personale, con i nostri clienti è fondamentale e a questo proposito abbiamo una rete di quasi 600 punti fisici e quasi 2mila installatori presso cui i nostri clienti possano trovare risposte alle loro richieste. Abbiamo ovviamente sviluppato molto i canali e i contatti digitali, ma sappiamo che l’Italia è un Paese composto da molti territori diversi fra loro e da molte persone che hanno l’esigenza di adottare ancora approcci relazionali più fisici. Per noi poter rispondere al cliente che bussa allo sportello, che viene nel negozio, è fondamentale. Del resto abbiamo constatato che molti operatori che avevano abbandonato il canale fisico oggi stanno facendo una veloce retromarcia».

E veniamo al quarto asse della vostra visione sostenibile, il capitale naturale e il paesaggio. Che cosa ci dice a questo proposito?

«Il rispetto del capitale naturale sta diventando per le aziende sempre più rilevante in una logica di strategie di medio-lungo termine, perché significa avere piena consapevolezza degli ecosistemi e delle risorse naturali su cui si investe, in una logica di preservazione e di ricerca della versione più corretta della sostenibilità, che è quella che pensa al benessere delle generazioni future. Ciò vuol dire prestare la massima attenzione agli impatti provocati dalla propria presenza sui singoli ecosistemi, ma significa anche impegnarsi a ripristinarli quando subiscono dei mutamenti. Il concetto di fondo è far sì che la natura sia posta al centro dell’agire industriale con dignità e visibilità. Per fare questo noi, ad esempio, abbiamo mappato il capitale naturale di tutti i siti industriali in cui siamo presenti con impianti di generazione elettrica, perché vogliamo essere perfettamente consapevoli di quello che c’è attorno a noi e vogliamo valorizzare il più possibile il territorio con azioni positive di sensibilizzazione e di supporto, anche in una logica turistica e paesaggistica. Pensiamo insomma che un insediamento industriale nel capitale naturale possa, anzi, debba essere fatto nel rispetto di tutti, questa è la strada che abbia-mo intrapreso e intendiamo percorrere anche in futuro».

Dottoressa Terenghi, un’ultima domanda: qual è il rapporto tra Edison e lo sviluppo di infrastrutture di gas naturale liquefatto?

«Il gas naturale liquefatto l’abbiamo sviluppato in una filiera che ha l’obiettivo di alimentare la mobilità. Noi abbiamo due linee differenti di mobilità, la prima relativa al trasporto di più breve tratta e la seconda che riguarda il trasporto sulle grandi distanze. Il primo è tipicamente quello urbano per il quale riteniamo abbia senso sviluppare la mobilità elettrica, il secondo riguarda i grandi spostamenti, i trasporti pesanti e anche il trasporto marittimo per cui riteniamo che in futuro saranno maggiormente adatte tecnologie a gas o idrogeno. È un processo che è già iniziato: molti armatori di grandi navi stanno facendo le loro scelte di riconversione delle loro flotte. La tecnologia c’è, e il combustibile anche: il gas liquefatto noi l’abbiamo portato in Italia, a Ravenna abbiamo il nostro deposito di gas che viene dagli Stati Uniti passando per la Spagna. Il primo passo, per quanto ci riguarda, è stato compiuto».

La più antica società energetica in Europa, con 140 anni di primati

Edison è la più antica società energetica in Europa, con 140 anni di primati, ed è uno degli operatori leader del settore in Italia con attività nell’approvvigionamento, produzione e vendita di energia elettrica e gas naturale e nei servizi energetici e ambientali.

La società è impegnata in prima linea nella sfida della transizione energetica, attraverso lo sviluppo della generazione rinnovabile e low carbon, i servizi di efficienza energetica e la mobilità sostenibile, in piena sintonia con il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) e gli obiettivi definiti dal Green Deal europeo.

Edison ha un parco di produzione di energia elettrica altamente flessibile ed efficiente, composto da 200 centrali tra impianti idroelettrici, eolici, solari e termoelettrici a ciclo combinato a gas ad alta efficienza. La potenza netta installata complessiva del Gruppo è di 6,5 GW. Oggi opera in Italia e Europa, impiegando oltre 5mila persone.

Per ciascun sito produttivo è stato creato un profilo di biodiversità

Per portare avanti con consapevolezza un’azione di tutela della biodiversità nei territori dove Edison opera, negli anni scorsi è sta- ta condotta un’analisi della vulnerabilità ecologica e del rischio bio-diversità nei pressi dei siti di generazione elettrica – oltre 200 impianti tra termoelettrici, idroelettrici, eolici e fotovoltaici – creando un database fruibile, integrabile e aggiornabile in ambiente GIS (Geographic Information System).

Per ciascun sito produttivo è stato creato un profilo di biodiversità, interrogando all’interno di un buffer di 10 km le fonti indirette più autorevoli e aggiornate, su tre piani informativi: specie animali e vegetali, habitat e biomi riconosciuti a livello scientifico, aree naturali sottoposte a tutela. Dallo studio è stato inoltre possibile identificare alcuni indicatori rappresentativi della biodiversità di specifici habitat oltre che alcune “specie immagine” che rappresentano gli ecosistemi intorno agli impianti analizzati.

Proprio a partire dalla mappatura dei siti poi, nel 2021 è stato condotto lo studio Biodiversity and Ecosystem Services Assessment su un’area geografica della Valtellina prossima agli impianti idroelettrici di Ganda, Belviso e Publino e all’area del Parco delle Orobie Valtellinesi. L’attività svolta con la collaborazione attiva del Parco, ha portato a quattro mappe tematiche di dettaglio: carta uso del suolo, carta della vegetazione, carta della natura e carta di sintesi dei servizi ecosistemici prioritari, cioè tutti quei beni e servizi che gli ecosistemi naturali e seminaturali producono, come la fornitura di risorse, la stabilizzazione del clima, il riciclo dei rifiuti, la protezione dall’erosione e dai dissesti geologici, l’impollinazione, gli usi ricreativi del territorio e l’estetica del paesaggio.

Infine, tra le principali iniziative svolte da Edison a tutela della biodiversità nel 2021, si segnala la prosecuzione dei monitoraggi dell’avifauna su diversi impianti eolici così come la predisposizione di aree dedicate, nelle prossimità degli stessi, di “carnai” per la salvaguardia dei rapaci locali. Con riferimento agli impianti fotovoltaici sono stati inoltre avviati alcuni monitoraggi del suolo.

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 25 (anno 7 n. 2) marzo-aprile 2022

Pensieri liberi su sostenibilità e progresso

In evidenzaPensieri liberi su sostenibilità e progresso

La parola sostenibilità tra uso e abuso, i buoni propositi dei giovani di ieri e di oggi, il prezzo da pagare per avere vantaggi che spesso si rivelano non essere tali.

Quando il tanto uso si trasforma in abuso

La parola sostenibilità è finalmente diventata patrimonio di tutti. Un termine che ha saputo entrare nei discorsi dei politici, nei titoli sui giornali, nella bocca degli esperti e anche nella mente di chi vive in semplicità la sua esistenza quotidiana.

Molto più efficace, almeno qui da noi in Italia, di quanto lo era il freddo e non sempre compreso acronimo “CSR”, che ha rappresentato per molto tempo la prima avanguardia di un pensiero nuovo, proiettato verso la protezione del nostro pianeta. Un passaggio importante, non solo linguistico: la CSR chiama in causa soprattutto le imprese, che devono adeguare la loro attività alle esigenze della salvaguardia, in particolare, dell’ambiente naturale in cui siamo immersi. Sostenibilità è un termine invece che allarga il concetto, coinvolge molte più entità, arrivando a sfiorare ognuno di noi, ricordandoci che il salvataggio del nostro ambiente di vita – naturale, economico e sociale – dipende da tutti noi, nessuno escluso.

Un concetto dunque finalmente sdoganato: oggi di “sostenibilità” ne parlano davvero tutti. Ma come spesso accade, la troppa notorietà non sempre è destinata a durare. Anzi, il troppo parlare di un’idea, spesso anche a sproposito, finisce per svuotarla del suo significato. Presto, forse molto presto, questo termine diventerà dunque super abusato, nel migliore dei casi, o mal sopportato e addirittura osteggiato, nel peggiore.

Ci sarà dunque bisogno di trovare un nuovo termine che indichi la “bussola” che ci consenta di indirizzare il cosiddetto progresso in una direzione quanto più virtuosa possibile. Qualche proposta? Difficile farla, in genere questi concetti nascono da soli, si sviluppano in via naturale, non vengono imposti o programmati a tavolino. Però qualche idea potrebbe essere: condivisione, partecipazione, corresponsabilità, visione comune, salvaguardia, compartecipazione, sopravvivenza…

Storie di 50 anni fa… o di oggi?

Di recente mi è capitato sott’occhio un breve testo pubblicato su un giornale per ragazzi nel lontano 1972, giusto giusto 50 anni fa. Il testo, supportato da un’efficace illustrazione di Mario Uggeri, è intitolato “La civiltà comincia qui” e racconta di un certo numero di giovani studenti e operai che spontaneamente hanno deciso di dedicare una loro giornata alla pulizia di una parte di territorio del nord Italia “che era diventata uno squallido immondezzaio per l’accumulo di contenitori, scatole, bottiglie, cartacce e borsette di plastica abbandonati da turisti scorretti». L’iniziativa, sottolinea lo scrivente (anonimo) “merita di venire sottolineata perché determina e puntualizza quelli che sono i naturali confini tra la civiltà e l’inciviltà, tra l’istinto di sopravvivenza, che l’umanità ha manifestato per secoli, e l’atteggiamento rinunciatario, quasi suicida, di tanti uomini d’oggi. I giovani non vogliono in eredità un pianeta morto. E lo stanno dimostrando”.

Il mio primo istinto è stato di provare tanta ammirazione e tenerezza per quei giovani che 50 anni fa si sono mostrati così sensibili da dedicare un’intera giornata alla pulizia di un bosco diventato una discarica. Poi ho pensato che l’impulso che ha mosso quegli studenti e quegli operai è lo stesso che porta molti giovani di oggi a compiere le stesse azioni, nella convinzione che il loro sia un messaggio che porterà finalmente alla sensibilizzazione dell’umanità intera verso problematiche per tanto tempo accantonate nel nome di un progresso di cui sembra non si possa fare a meno.

Quante volte abbiamo sentito dire che i giovani di oggi “non vogliono in eredità un pianeta morto”. Proprio come quelli del lontano 1972, che nel frattempo sono invecchiati e chissà se si ricordano ancora di quella giornata passata a ripulire il loro boschetto pieno di rifiuti.

Il progresso non lo puoi fermare

Il progresso non lo si può fermare, questa è una delle affermazioni che l’umanità si tramanda da sempre, di padre in figlio. Una massima che può avere una valenza positiva ma anche un’accezione negativa. Che la vita dell’uomo sia caratterizzata da una continua evoluzione è facile da dimostrare, basta sfogliare libri di storia, guardare vecchie fotografie, studiare trattati scientifici e analizzare opere di ingegno provenienti dal passato. Fantastico che sia così, ovvio, quanto è migliorata la nostra vita rispetto a quella dei nostri antenati?

Ma il progresso da una parte dà e dall’altra toglie. Ogni nostra conquista ha un prezzo, che nel tempo va pagato. Ogni epoca ha dovuto versare il suo contributo al progresso, è una regola che fa parte della nostra storia, ma la sensazione è che quello che dobbiamo corrispondere oggi sia ben più “caro” di quello corrisposto nei momenti storici precedenti.

Molti sono gli aspetti che inducono questo pensiero negativo: il fatto che siamo molti di più rispetto al passato, che siano aumentate le nostre capacità di “sfruttare” il pianeta, che la ricchezza e la qualità della vita siano mal distribuite come non mai nel mondo, che la tecnologia produca inquinamento a livelli mai raggiunti, che le materie prime siano destinate ad esaurirsi presto, che l’egoismo, l’indifferenza e la prepotenza siano diventati sempre più presenti nell’ambito dei rapporti tra gli umani.

Progresso e sostenibilità possono andare a braccetto? Lo potrebbero se si fosse capaci di governare il primo secondo i dettami della seconda. Ci si tenta, qualche persona virtuosa cerca di farlo, ma per riuscire a raggiungere questo obiettivo bisogna fare sì che quell’affermazione tramandata di padre in figlio diventi meno vera. Bisogna cercare di fermare, almeno in parte, il progresso. Riuscire a fare un passo indietro, a rinunciare ad alcuni vantaggi che vantaggi in realtà non si rivelano essere.

Facile a dirsi ma, fino a quando purtroppo non saremo messi con le spalle al muro – perché noi umani siamo fatti così – molto difficile da attuare.

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 24 (anno 7 n. 1) gennaio-febbraio 2022

Ci salveranno (forse) i giovani

In evidenzaCi salveranno (forse) i giovani

Ben vengano le varie COP, i summit, gli accordi ai massimi livelli tra Paesi del mondo, ma forse non è lì che si decidono le sorti del nostro pianeta.

In giornali, televisioni e media in genere, questi momenti in cui i grandi della terra si ritrovano per discutere tra loro vengono trattati con dovizia di particolari già molti giorni prima che abbiano luogo. Poi questi potenti – uomini e donne – li vediamo in centinaia di foto e immagini che li ritraggono mentre si incontrano tra di loro, mentre assistono a conferenze, mentre mangiano seduti a tavoli sfoarzosamente imbanditi, nei grandi saloni dei palazzi e degli alberghi più belli del mondo.

È un po’ come una compagnia di giro. «Ti è piaciuta Glasgow?», «Sì, molto, ma Parigi…», «Vediamo la prossima, speriamo ci sia il mare…», «A proposito, hai provato questa marca di sigari? Divini, mi arrivano direttamente da Cuba!». Poi, un paio di dichiarazioni ufficiali per la stampa e tutto finisce lì.

E intanto in molte parti del mondo la gente vive in condizioni miserevoli, respira fumi avvelenati, assiste impotente al massacro di intere foreste, nelle sue reti insieme ai pesci raccoglie quintali e quintali di plastica…

Alla fine dei summit i potenti se ne tornano nei loro ricchi palazzi e continuano a frequentare gli stessi lussuosi alberghi, e dopo pochi giorni della COP, del summit, dell’accordo raggiunto non ne parla più nessuno.

Del resto che cosa aspettarsi da una generazione che è cresciuta in un mondo in cui si poteva fumare al ristorante, usare l’automobile per fare solo pochi metri, inquinare i fiumi, ammazzare senza criterio gli animali, depositare scorie radioattive in ogni angolo del pianeta, perseguire il profitto a ogni costo (costo sostenuto ovviamente “dagli altri”).

Molti ce l’hanno con Greta Thunberg, la giovane attivista svedese che è divenuto simbolo della lotta contro il cambiamento climatico e per lo sviluppo sostenibile. Dicono che anche lei faccia parte della stessa categoria dei potenti.

Certo, oggi è diventata famosa, riconoscibile a tutte le latitudini e forse un po’ la sua vita è davvero cambiata, in questi ultimi anni. Ma qui il discorso è differente, perché lei rappresenta una generazione diversa, fatta di giovani che forse stanno capendo che il destino della terra lo decideranno loro, che scendono in strada per farsi sentire, che si ritrovano per ripulire spiagge e strade cittadine, che se fumano non buttano i mozziconi per terra, che rispettano i diritti degli altri e sono contro ogni prevaricazione e abuso.

Ecco, i primi, i potenti, si parlano tra loro e decidono quello che più gli conviene. I secondi, i giovani, rappresentano il futuro, anzi la speranza di un futuro migliore. Non che tutti siano così sensibili da esserlo, nessuno è tanto ingenuo da pensarlo, ma è indubbio che se qualcosa cambierà, nei prossimi anni, sarà per merito dei giovani più sensibili, magari di quelli che vanno a scuola o al lavoro in bicicletta nel loro quartiere degradato, piuttosto che dei soliti vecchi che si ritrovano a intervalli regolari per condividere gli agi e i privilegi degli alberghi di lusso delle più belle città del mondo.

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 23 (anno 6 n. 5) novembre-dicembre 2021

Con il trigeneratore si riducono le emissioni di CO2 risparmiando sull’energia elettrica

In evidenzaCon il trigeneratore si riducono le emissioni di CO2 risparmiando sull’energia elettrica

Medtronic è focalizzata in tutto il mondo nel ridurre l’impatto ambientale in quanto consapevole della connessione tra la salute del pianeta e la salute umana. In Italia, nella biomedical valley di Mirandola, troviamo un esempio di grande innovazione per autoprodurre energia elettrica (e non solo).

Gli sforzi di Medtronic nel trovare soluzioni innovative per ridurre il proprio carbon footprint e divenire Carbon Neutral entro il 2030 sono molteplici: dalla riduzione dell’utilizzo dell’acqua e dei rifiuti, alla sostenibilità nel design di prodotto. Bellco, azienda di Medtronic che ha sede a Mirandola e si occupa della ricerca, produzione e fornitura di trattamenti di purificazione del sangue per pazienti affetti da patologie renali croniche e acute, da settembre 2020 – proprio in pieno periodo pandemico –, si avvale dell’utilizzo di un impianto che utilizzando il gas metano è in grado di produrre energia elettrica, acqua calda, vapore e acqua fredda (durante il periodo estivo) con grande risparmio energetico e ottimi risultati dal punto di vista ambientale. Si tratta di un modernissimo cogeneratore di energia che è stato adattato alle esigenze aziendali tanto da divenire un trigeneratore in grado di assolvere a tre distinti servizi.

Ne parliamo con Bruno Zuccoli (nella foto: dietro, al centro), Facilities Manager di Bellco-Medtronic.

Come e quando è nata l’idea di dotarvi di un cogeneratore?

«Il nostro pensiero è sempre stato quello di cercare di risparmiare il più possibile sul consumo di energia, cercando soluzioni alternative già prima del 2012, anno in cui c’è stato il terremoto. Da sempre abbiamo cercato di “strappare” contratti per l’energia a costi molto bassi, ma ci siamo resi conto che potevamo fare di meglio. Possiamo dire quindi che al cogeneratore siamo arrivati quasi in modo naturale…».

Come funziona il vostro cogeneratore, a che cosa serve?

«Per spiegarlo in maniera semplice e diretta si può dire che il cogeneratore è un motore che consuma gas e produce energia elettrica. Questo significa che, pur avendo un aumento consistente del consumo di gas, abbiamo ridotto di molto l’acquisto di energia elettrica, tanto che oggi ce la produciamo quasi tutta noi, diciamo all’80% del fabbisogno. Con un aspetto fondamentale: il gas costa molto meno dell’energia elettrica e inquina meno!».

Il vostro cogeneratore è in realtà un trigeneratore: oltre all’energia elettrica, acqua calda e vapore, produce acqua fredda in estate. Ce ne vuole parlare?

«Vero. Il cogeneratore, come abbiamo detto, è un motore che produce energia elettrica, e questa è la nostra prima esigenza, quella che ci permette di mantenere attivi i nostri processi produttivi. Ma al tempo stesso il motore produce calore da cui abbiamo acqua calda fino a 90° e vapore; grazie all’aggiunta di un assorbitore fatta al macchinario originario, ci permette inoltre di produrre “gratuitamente” anche acqua fredda in estate a partire dall’acqua calda, indispensabile per la climatizzazione delle nostre clean room. È importante inoltre sottolineare che la caldaia a servizio del trigeneratore emette fumi ad alta temperatura che, attraverso un meccanismo specifico, riusciamo a utilizzare per produrre il vapore che ci serve per la sterilizzazione dei filtri per dialisi che produciamo».

A quanto corrisponde, a grandi linee, il risparmio di energia dovuto all’utilizzo del trigeneratore?

«È un risparmio enorme. A fronte degli 11 milioni di KWH che acquistavamo prima, ne acquistiamo ora poco meno di 3 milioni. Chiaro che si deve mettere in conto l’utilizzo del gas, ma a conti fatti possiamo pensare a un risparmio sull’anno che si avvicina agli 800mila euro, che diventano 950 se pensiamo al fatto che contemporaneamente possiamo tenere fermi i “vecchi” impianti come le caldaie e il generatore di vapore. Inoltre, in Italia sono previsti incentivi per chi si produce da sé l’energia elettrica, i cosiddetti “certificati bianchi” che oltretutto possono essere venduti alle aziende meno virtuose che possono porre rimedio a questa loro manchevolezza acquistando questi certificati dalle aziende che, invece, virtuose lo sono. Un’ulteriore possibilità di risparmio/ guadagno, che porta l’attivo finale a ben più di un milione di euro».

In tutto ciò sembra esserci anche un importante aspetto legato alla minore produzione di CO2. È davvero così?

«È un aspetto non certamente secondario. In base ai calcoli fatti dopo un anno di attività – che hanno tenuto conto dell’energia elettrica prodotta, del gas consumato, del caldo che non abbiamo dovuto produrre con le nostre macchine, ecc. – possiamo dire che abbiamo emesso circa 3.200 tonnellate di CO2 in meno rispetto al passato. E questo senza che vi sia stata alcuna dispersione o perdita di energia: tutta quella che viene prodotta in eccesso abbiamo la possibilità di venderla, anche se abbiamo tarato il nostro trigeneratore in modo tale da ottimizzare tutto il processo e produrre la quantità di energia di cui abbiamo bisogno per poter mantenere il nostro processo produttivo».

CHE COSA?

La trigenerazione è un processo che permette di produrre energia elettrica, acqua calda, vapore e acqua fredda, utilizzando gas. L’energia elettrica, il vapore-acqua calda e acqua fredda sono una conseguenza dell’utilizzo di questo trigeneratore grazie cui è possibile evitare di fare uso di caldaie e di frigoriferi. Per cui da una sola fonte, il gas, vengono prodotte tre differenti cose, ecco il perché del nome “trigenerazione”.

DOVE?

Il trigeneratore è un impianto in uso da settembre 2020 in Bellco Medtronic, azienda che da oltre 40 anni è leader nelle soluzioni di emodialisi, ha la sua sede a Mirandola, all’interno del Distretto biomedicale mirandolese, e che nel 2016 è stata acquisita da Medtronic. In Bellco sono oggi occupate 650 persone, i suoi prodotti sono esportati e venduti in oltre 50 Paesi del mondo.

PERCHÉ?

La produzione fatta in casa di energia elettrica consente di ottenere un grande risparmio sulle spese di energia elettrica, riducendo le emissioni di CO2 in maniera considerevole (3.200 tonnellate annue) e di ottenere la produzione di vapore-acqua calda e acqua fredda a costo praticamente zero ottimizzando i processi e consumi. Ottimo è anche il risultato dal punto di vista ambientale, in osservanza dell’obiettivo di sviluppo sostenibile 12 dell’ONU, volto a “garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo”.

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 23 (anno 6 n. 5) novembre-dicembre 2021

È possibile vivere senza l’automobile di proprietà?

In evidenzaÈ possibile vivere senza l’automobile di proprietà?

Mentre a Berlino si sta pensando di mettere in atto un piano che prevede una grande area ubana libera dal traffico di auto private destinata a diventare la più vasta al mondo – 88 chilometri quadrati, la metà della superficie dell’intera città di Milano –, e mentre le cronache più attente esaltano l’esperienza di Pontevedra, città spagnola di 80mila abitanti nota per essere la “città senza macchine” grazie alla pedonalizzazione del centro storico ma anche di molti quartieri esterni, vogliamo qui raccontare brevemente l’esperienza di chi ha scelto di vivere senza automobile.

La scelta

Per 4 anni una famiglia di Milano composta da 4 persone – padre, madre e due figli adolescenti – ha fatto a meno della macchina.

La decisione, nello specifico, è stata: addio all’auto di proprietà e via libera all’utilizzo di auto in car sharing o a noleggio nei casi di bisogno: trasferte cittadine da dover fare assolutamente in auto – ad esempio nel caso di trasporto di oggetti ingombranti o pesanti – e trasferte “fuori porta” come quelle delle vacanze estive o quelle delle gite nel fine settimana. Una scelta certo più facile da attuare in un contesto urbano, dove – in aggiunta al car sharing – si possono avere a disposizione soluzioni alternative efficienti come trasporti pubblici e piste ciclabili. Più difficile da attuare in piccole cittadine, paesi o addirittura agglomerati di poche case in montagna o in campagna.

I motivi

I motivi della scelta sono molti: desiderio di non avere più vincoli amministrativi come bollli, assicurazioni, revisioni, ecc.; desiderio di non trovarsi più bloccati nel traffico; desiderio di non dover più cercare parcheggio nelle vie sotto casa; desiderio di “liberare uno spazio” in città; desiderio di non inquinare l’aria; desiderio di non subire più danni da vandalismi, grandinate, “disattenzioni” degli altri automobilisti…-

Aspetti positivi

Da una parte grande serenità e consapevolezza di attuare una scelta positiva per sé e per i propri cari ma anche per l’intera comunità, nella certezza che senza auto, o comunque con le auto ridotte all’essenziale, le città sarebbero più belle, vivibili, green e sostenibili.

“Scoperta” della bicicletta come mezzo principale degli spostamenti cittadini, ma anche le camminate non vengono disdegnate, con beneficio anche per la salute del proprio corpo.

Riscoperta dell’uso del treno, con tutto quello che ne consegue: minor rischio di incidenti, maggiore rilassatezza dei viaggiatori – in particolare del guidatore – con possibilità di dormire, leggere, chiacchierare senza nervosismi provocati dalla troppa velocità o dalla troppa lentezza vissuta negli spostamenti in auto.

È una scelta che rende orgoglioso chi la attua, che viene guardato con curiosità e un certo rispetto dalle altre persone che, in cuor loro, tendono comunque a pensare: «Io non ce la potrei fare…».

Difficoltà

La scelta comporta alcuni problemi di organizzazione interna ed esterna alla famiglia. Ci sono situazioni che sono “scoperte” e non risolvibili con le auto pubbliche.

Il car sharing è ancora troppo poco diffuso, spesso è difficile, se non impossibile, trovare auto a disposizione. È un problema anche di distribuzione dei veicoli sul territorio cittadino: in alcune ore della giornata, soprattutto mattina e sera, questi tendono a concentrarsi in alcuni quartieri – del centro o della periferia – e sono spesso assenti su altri.

C’è un problema, inoltre, per quanto riguarda le trasferte di medio raggio. Un esempio pratico: la trasferta del figlio che gioca a basket o della figlia che gioca a pallavolo, che devono essere portati, in un orario serale, in una città dell’hinterland. Troppo lontano per il car sharing e utilizzo troppo “breve” per pensare di procedere con tutte le pratiche – spesso lunghe e macchinose da espletare – relative al noleggio. Impossibilità di recarsi nella palestra in oggetto in bicicletta, coi mezzi pubblici e con il treno. Risultato: o il figlio va con altri genitori o resta a casa. Soluzione che può essere attuata forse una, due volte, dopo di che è facile supporre che il pensiero che tende a sorgere nella testa dei genitori ospitanti – è ovvio e anche più che normale – sia «bello fare gli splendidi con le auto degli altri!».

Morale finale

Con il passare del tempo diventa sempre più difficile sostenere la posizione all’interno della famiglia. Anche le trasferte nei grandi centri commerciali ai confini della città – come quelli che vendono mobili, per fare un esempio – sono praticamente precluse, e questo si può immaginare quanto pesi sulla serenità familiare… Aumentando le pressioni, si è portati a un certo punto a dire; vabbè, prendiamo una macchina piccola, da usare per i piccoli-medi spostamenti. Ma questo è il primo passo verso il cedimento, perché il pensiero successivo è: sì, ma che senso ha avere un’auto che non puoi usare tutti e quattro con una certa comodità e, nel caso dovesse servire, anche potendo trasportare bagagli proporzionati? A questo punto prendiamo un’auto un po’ più grande, magari stiamo attenti che consumi e inquini poco (elettrica? No, costa troppo e poi dove la ricarichi? Il garage non ce l’abbiamo e la colonnina più vicina è a più di un chilometro da casa…).

E così in un attimo rischi di ritrovarti di nuovo a dover girare mezz’ora la sera alla ricerca di un parcheggio, sapendo che domani dovrai portare l’auto dal meccanico a fare il tagliando e ricordandoti improvvisamente che la prossima settimana ci sarà l’assicurazione da rinnovare…

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 22 (anno 6 n. 4) settembre-ottobre 2021

Local, smart, green e inclusive, ecco come saranno in futuro le nostre città

In evidenzaLocal, smart, green e inclusive, ecco come saranno in futuro le nostre città

Barbara Cominelli, CEO di JLL Italia: «C’è, oggi, una grande accelerazione sul ripensamento delle città. Si pensa ad agglomerati urbani con tanti poli, in cui tutto sia a portata di mano, a misura d’uomo e raggiungibile in poco tempo – il cosiddetto modello di “città dei 15 minuti” – in un’ottica di mobilità un po’ più sostenibile e di creazione di ecosistemi di innovazione e di inclusione».

JLL è tra le principali realtà mondiali operanti nel settore del real estate. Un settore che sempre più viene considerato strategico per una crescita sostenibile e green delle nostre città.

Dalla qualità dei nostri edifici – per abitazioni, uffici, centri commerciali, aziende, ecc. – dipende anche la qualità della nostra vita, questo è un concetto che oggi è con prepotenza entrato nel nostro comune sentire. E non stiamo parlando di bruscolini: il real estate è un settore che in Italia vale più o meno il 20% del PIL, che genera – purtroppo – il 39% delle emissioni e consuma il 40% dell’energia. Non c’è dubbio che tutto l’ecosistema del costruito/costruisco/utilizzo/dismetto è senza dubbio molto inquinante.

Ne parliamo con Barbara Cominelli, CEO di JLL Italia, da sempre sensibile alle trasformazioni che possono essere ottenute con la tecnologia ma soprattutto con la sostenibilità, sia ambientale sia legata alla creazione di capitale.

Dottoressa Cominelli, che cosa si può, anzi si deve fare per rendere meno “impattanti” i nostri palazzi?

«Possiamo cominciare con il dire che se guardiamo lo stock immobiliare europeo, scopriamo che più o meno il 75% degli edifici complessivi – in Italia va un po’ peggio, siamo all’84% – ha una classificazione energetica di grado molto basso, inferiore a D. I Paesi in condizioni migliori sono quelli dell’Est europeo, che in conseguenza dei cambiamenti vissuti negli ultimi decenni godono di uno stock più nuovo. Ma non dobbiamo pensare che valga sempre l’equazione nuovo/sostenibile, perché utilizzare nuovo territorio non è di certo la soluzione migliore. L’obiettivo deve piuttosto essere quello di fare un passo deciso verso una riqualificazione green del nostro patrimonio immobiliare. In questa direzione va proprio l’European Green Deal, che ha tra gli obiettivi l’abbattimento delle emissioni degli immobili del 60%».

Il cambiamento dovrà riguardare i nuclei abitativi nel loro complesso, in particolar modo le città…

«Questo è un tema centrale. È fondamentale reimpostare la struttura delle città, approfittando anche del momento in cui si potrà finalmente parlare di post-covid. C’è, oggi, una grande accelerazione sul ripensamento delle città, che porterà ad avere centri abitati molto più policentrici, in cui non ci sarà, come oggi, un solo “centro” dove tutti la mattina si recano per lavorare per poi tornare verso l’esterno per vivere e dormire. Si pensa a città con tanti poli, in cui tutto sia a portata di mano, a misura d’uomo e raggiungibile in poco tempo – il cosiddetto modello di “città dei 15 minuti” – in un’ottica di mobilità un po’ più sostenibile e di creazione di ecosistemi di innovazione e di inclusione».

La parola d’ordine sembra essere “rigenerazione”. È davvero così?

«È assolutamente un tema di grande valore, che ti permette di ottenere buoni risultati economici, se sei un investitore o sei un’azienda che vuole inserirsi in un progetto di rigenerazione urbana, associati a ottimi risultati di inclusione sociale, perché aree che dal punto di vista sociale erano lasciate ai margini con questo nuovo modello di città si trovano a essere incluse. Ogni euro investito in rigenerazione ha un moltiplicatore molto importante in termini di ricaduta sul territorio, visto che ne “produce” tre. Il tema della rigenerazione a 360° riguarda anche l’obiettivo di far diventare la città più inclusiva, accessibile a tutti, anche agli studenti alle nuove coppie, a chi non ha grandi disponibilità. Per questo si parla di social housing: concetto virtuoso che per essere raggiunto richiede molto lavoro e attenzione alle esigenze di tutti. C’è tutto il tema dello student housing, ma anche quello del senior housing, sempre più pressante visto l’invecchiamento progressivo della popolazione, in particolare quella del nostro Paese».

Quanto e come influirà sul sistema del real estate l’avvento del Covid con tutto il suo corredo di smart-working e aumento degli acquisti da remoto?

«Il Covid ha accelerato un ripensamento collettivo che era già in atto per ripensare come viviamo, lavoriamo, studiamo, passiamo il nostro tempo libero all’interno delle nostre realtà cittadine. Lo smart-work favorisce questa visione della città a 15 minuti, perché se a pochi minuti da casa mia ho tutti i servizi essenziali di cui ho bisogno, è chiaro che il dover rimanere a lavorare in casa non è un aspetto negativo, anzi, può migliorare il mio senso di benessere generale».

Nella vostra visione si parla spesso di “città”, come se il futuro dovesse risolversi soprattutto in quei contesti…

«Le indicazioni che abbiamo parlano chiaro: già fin dal prossimo futuro le città sono destinate a crescere. Il trend è sempre più quello della urbanizzazione: attualmente si calcola che nelle città viva il 55% della popolazione mondiale, percentuale destinata a salire, entro il 2050, al 70%. Questo significa che ci saranno più di 2 miliardi di persone che dovranno trovare spazio nelle città e la nostra preoccupazione deve essere quella di renderle più accoglienti per tutti e non solo per poche élite».

Non sempre lo sviluppo dei quartieri va di pari passo con i buoni propositi iniziali. Qual è la ricetta perché tutto funzioni al meglio?

«È fondamentale che ci sia una buona alleanza pubblico/privato. Se tutto viene predisposto in modo corretto e durevole, poi le aziende arrivano, il residenziale prende possesso del quartiere e si viene a creare un circolo virtuoso che permette al nuovo quartiere – o al quartiere rigenerato – di “decollare”. Ma gli investitori senza il supporto e la visione del “pubblico” da soli non ce la possono fare».

In Italia si verifica questa alleanza pubblico/privato?

«L’alleanza tra pubblico, privato è un aspetto fondamentale. Se sei un privato, un investitore, la cosa che ti fa più paura è l’incertezza. Se sai di avere un interlocutore con cui dialogare – soprattutto nel settore immobiliare che richiede un pensiero di medio-lungo termine – sei molto più tranquillo. Bisogna sottolineare che nel nostro Paese le amministrazioni si stanno sempre più impegnando per creare connessioni, portare mobilità e servizi nelle parti di città interessate da rigenerazione. Spesso viene richiesto al privato di assegnare una parte dello sviluppo progettuale all’edilizia sociale, in modo che non ci sia spazio solo per uffici o per case per ricchi. Bisogna dare l’opportunità a tutti di poter vivere in ambienti organizzati e sostenibili. Questo è anche quello che richiedono le grandi aziende, che vincolano la scelta delle proprie sedi alla presenza di talento, di capitale umano, elemento considerato tanto importante quanto quello delle infrastrutture, del regime fiscale e delle opportunità prestate dagli strumenti software. Ed è chiaro che le città avranno un migliore futuro se sapranno crescere in termini sostenibili attirando talenti e creando vivacità, dinamismo».

Qual è l’impegno diretto e fattivo di JLL nei confronti di questa auspicata trasformazione sostenibile del comparto del Real estate?

«Siamo completamente dentro questa trasformazione, ogni giorno parliamo di questi temi e aiutiamo i nostri clienti a operare scelte finalizzate a raggiungere questo obiettivo. Per quanto ci riguarda, come azienda abbiamo firmato il “Climate Pledge” e ci siamo impegnati a essere net zero entro il 2040. Ed entro il 2030 saremo carbon neutral su tutto quello che riguarda i nostri edifici e le nostre attività. Ma la nostra grande sfida è quella di arrivare al 2040 net zero anche su tutte le attività che gestiamo per i nostri clienti, per questo operiamo senza tregua nel sensibilizzarli su questi temi».

Come avviene la vostra condivisione della sostenibilità con i vostri clienti e stakeholder?

«Abbiamo intervistato vari nostri clienti, sia lato investitori sia lato grandi aziende, e buona parte di loro ci ha rivelato che sta iniziando a sviluppare piani per cui è fondamentale il link tra corporate real estate e sostenibilità a livello di board. Nel mondo degli edifici i punti decisivi da questo punto di vista sono due: ridurre la produzione in termini di emissioni nel momento in cui costruisco il building e ridurla durante il suo utilizzo. C’è molto fermento su tutto ciò che è collegato a questi due momenti: come costruisco, come ci vivo, quale design utilizzo, come riciclo. E quanto suolo nuovo consumo: quando si parla di “rigenerazione” la cosa peggiore sarebbe costruire nuove città andando a consumare suolo nuovo e non riutilizzando quello già occupato. Un altro tema importante è quello del riciclo, della circolarità, che è sempre più fondamentale in come progettiamo gli edifici e in come li utilizziamo. Dobbiamo arrivare, in generale, a un modello dei nostri edifici molto più inclusivo, oggi purtroppo non è sempre così».

L’inclusione, un altro punto su cui vale la pena soffermarsi…

«Sì, l’inclusione è un tema che ci sta molto a cuore. L’immobile deve essere anzitutto accessibile, non deve avere barriere architettoniche. Una scelta che non deve essere fatta solo per rispettare le disposizioni di legge. Il pensiero che si deve affermare è ”rendo accessibile a tutti uno spazio by design”. Cioè: non costruisco una scala normale e poi di fianco ci metto una rampa per chi non è in grado di utilizzare la scala, costruisco direttamente una rampa che venga utilizzata da tutti. Il punto è dunque quello di disegnare spazi che siano “nativamente” inclusivi. Il tema dell’accessibilità è oviamente legato alle persone disabili, agli anziani, ai genitori con bambini piccoli ma può riguardare tutti noi in qualsiasi momento della vita».

Riassumendo, dottoressa Cominelli, come sarà, anzi come dovrà essere la città del futuro per essere davvero sostenibile?

«Più che di “città del futuro”, mi piace parlare di “città rigenerate”. Saranno sicuramente locali – nel senso detto prima – ma anche fortemente integrate in circuiti di innovazione quanto più ampi possibili, direi a livello europeo. Quindi: da una parte localizzazione dei consumi, nell’utilizzo dei servizi, dall’altra una forte integrazione con gli altri hub dell’innovazione. Saranno città più smart e tecnologiche. La tecnologia è ancor oggi piuttosto sottoutilizzata e questo è un peccato perché rappresenta il driver principale per far fare un salto anche green agli agglomerati urbani che ci ospitano. Local, smart, green e inclusiva, in futuro la città dovrà riuscire a essere così».

WELCOME

L’ufficio biofilico del futuro, in cui lavoro e natura dialogano armonicamente, in un’architettura organica e orizzontale in ascolto del contesto che la ospita. Su questa base nasce il visionario progetto voluto dalla piattaforma indipendente Europa Risorse, che già prima della pandemia aveva intuito la necessità di dare vita a uno spazio di lavoro a misura d’uomo, nel completo rispetto della natura e perfettamente integrato e modellato nell’ambiente. L’imponente cantiere di Welcome, feeling at work, al via oggi a Milano nella zona del Parco Lambro, verrà completato nel 2024 e permetterà all’individuo di accedere ai più sofisticati requisiti tecnologici e digitali, ma anche a efficaci misure per proteggere le persone da future pandemie.

L’ambizioso progetto, finanziato da un fondo gestito da PineBridge Benson Elliot, vuole essere tra i più sostenibili mai realizzati e si pone come un passo avanti nell’architettura e nella concezione del lavoro, coniugando benessere della persona e rispetto dell’ambiente.

CITYWAVE

CityWave, così come l’intero intervento di CityLife a Milano, è un progetto di rigenerazione urbana sviluppato dal Gruppo Generali. È l’ultimo tassello del quartiere, una realizzazione che entra in perfetto dialogo con gli edifici già presenti a CityLife e che diventa il naturale completamento dell’area.

Un progetto innovativo e unico, a compimento di un impegno sul lato della sostenibilità che ha caratterizzato l’intero sviluppo del quartiere; ideato per raggiungere i più alti standard, si qualificherà come LEED Platinum. L’idea progettuale prevede due edifici collegati tra loro da una copertura sospesa – il “portico inverso” – che allarga lo spazio interno e lo proietta verso l’esterno favorendo un nuovo luogo di convivialità e incontro tra le persone, uno spazio pubblico ombreggiato e protetto, vivibile per gran parte dell’anno.

Sole, aria, acque piovane e di falda sono le fonti rinnovabili che alimentano un’avanzata strategia energetica. Grazie al rivestimento in pannelli fotovoltaici, la copertura che unisce i due edifici diventa il parco fotovoltaico più grande della città con una superficie di circa 11.000 m2, in grado di fornire una produzione di energia stimata in 1.200 MWh l’anno. La stessa copertura consente poi la raccolta e il riuso delle acque piovane, mentre le acque di falda sono destinate a un utilizzo termico.

Un progetto che contempla un cambiamento profondo anche nell’ideazione degli interni con ambienti di lavoro in cui sono previsti spazi inediti di connessione e collaborazione tra le persone.

COME CAMBIA LA VITA IN AZIENDA

Largo a donne, giovani e spazi per la socializzazione

Barbara Cominelli: «Sul ruolo delle donne all’interno di JLL stiamo lavorando tantissimo, è un tema che ci vede in prima linea. Riteniamo infatti di dover fare un salto di diversity, in primis di genere. L’azienda ha capito che l’assumere donne è una priorità che riguarda il suo stesso fare business, non è solo un’esigenza di facciata.

Cerchiamo tantissimi architetti, ingegneri, profili in cui il bacino femminile potenzialmente c’è, soprattutto in quello dell’architettura. La nostra capacità deve essere in generale quella di poter integrare nei nostri meccanismi operativi tutte le categorie di persone immaginabili: donne, uomini, giovani, chi ha famiglia, chi non ce l’ha, chi ha anziani da gestire, ecc. Ognuno con le sue caratteristiche e le sue esigenze, che vanno il più possibile valorizzate e rispettate.

E qui entriamo nel grande discorso della flessibilità, oggi più che mai attuale. L’obiettivo è individuare un modo per far sì che lo smart-working, questo modello di lavoro agile possa diventare un elemento di crescita per chi ha impegni familiari, in particolare le donne.

Dobbiamo far sì che queste politiche flessibili siano capaci di farci fare un vero salto strutturale Dobbiamo trovare il modo per fare sì che un dipendente possa lavorare da casa due-tre giorni alla settimana, in base alle decisioni, senza essere isolato dal resto del contesto e senza che venga penalizzato in modo tale da subire cambiamenti sul proprio stato professionale.

Abbiamo fatto delle ricerche al proposito e abbiamo scoperto che il 36% dei dipendenti che lavora da casa si sente privo di energia e fa fatica a rimanere motivato mentre il 36% fa fatica a mantenere relazio- ni personali al suo rientro in ufficio, si sente isolato. Il 75% ci dice che si aspetta che il datore di lavoro si occupi anche della sua salute men- tale, delle preoccupazioni o paure che possono sorgere in momenti particolari come quello che stiamo vivendo ai giorni nostri.

È un momento di grandi cambiamenti, come dimostrato dal fatto che il 41% delle persone dice: “mi sto guardando intorno per cambiare lavoro perché non mi sento supportato, a mio agio in questa azienda”. Se le aziende non fanno un salto in avanti in termini di capacità di dare un bilanciamento ai dipendenti, soprattutto a quelli più giovani, perderanno i talenti.

È un tema che riguarda anche il tipo di spazi in cui viviamo e lavoriamo. Mentre prima negli uffici gli spazi erano così distribuiti: 70% scrivanie per lavorare individualmente e 30% spazi di condivisione, palestra, asilo, ecc., adesso le percentuali sono quasi ribaltate. Si cercano sempre più nuovi spazi che aiutino ad aumentare la socializzazione, spazi per focalizzarsi, per connettersi con la natura, per imparare nuove attività rilassanti… i nuovi uffici saranno molto diversi da quelli vecchi, ci saranno molti più spazi per fare queste cose, perché poi molte attività professionali potranno essere svolte da casa, non servirà a tutti i costi essere fisicamente in un ufficio».

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 22 (anno 6 n. 4) settembre-ottobre 2021

Alga spirulina, da “Cibo degli Dei” a “Cibo del futuro”

In evidenzaAlga spirulina, da “Cibo degli Dei” a “Cibo del futuro”

Grazie a una collaborazione tra l’azienda Andriani SpA, e la start-up ApuliaKundi, è stata creata la pasta all’alga Spirulina, organismo la cui origine risale agli albori della vita. Il racconto di una giornata trascorsa a Gravina in Puglia, in un luogo magico dove la sostenibilità è davvero di casa.

Più che un articolo, questo è probabilmente un racconto. Il racconto di una giornata vissuta a Gravina in Puglia per celebrare una protagonista dal nome sbarazzino ma dalla storia antica, anzi, preistorica, anzi ancora di più, che risale all’origine di tutto, all’inizio della vita stessa, per come la intendiamo noi terrestri.

Stiamo parlando dell’alga Spirulina, una presenza costante nella storia del nostro pianeta. Si dice che sia uguale in tutto e per tutto a come era miliardi di anni fa. Sì, miliardi. Qualcuno sostiene anche che se c’è la vita, sul pianeta terra, è grazie anche e forse esclusivamente alla capacità di questa microalga di “trasformare” la CO2 in ossigeno.

E dai che ti dai, tutto questo ossigeno prodotto è servito alla vita che stava per sorgere, non ci siamo dimenticati che stiamo parlando di miliardi di anni fa, vero?

Quello che si sa con certezza, oggi, è che la spirulina vive e si riproduce in acqua dolce ed è diffusa naturalmente in buona parte del mondo, dal Sud America all’Africa, dall’India agli Stati Uniti, dalla Cina alla Thailandia. E da un po’ di tempo anche in Italia. Viene chiamata da sempre “Cibo degli Dei” e c’è chi – come ad esempio la FAO – già da tempo la definisce “Cibo del futuro”.

La spirulina a Gravina di Puglia

Ma andiamo per gradi. Come ci è arrivata a Gravina in Puglia, la spirulina (che gli scienziati, tra l’altro, preferiscono chiamare Arthrospira platensis)? È una storia lunga, ma forse neanche troppo. La storia di due giovani – Raffaele Settanni e Danila Chiapperini – che hanno deciso di portare in Italia, nella loro terra, un’esperienza vissuta durante un progetto di cooperazione internazionale in un villaggio del Malawi. Lì la spirulina viene “mangiata” regolarmente. “Perché non portarla in Italia?” l’idea dei due, che decidono di fondare una start-up, che chiamano “ApuliaKundi”, che si occupi di produrre e trasformare in stick e confetti quest’alga, riuscendo a vincere in poco tempo un bando della Regione Puglia e tanti premi “bio” che attestano la validità della loro iniziativa.

Non dobbiamo immaginare quest’alga come se si tratti di una pianta. È una microalga, ma davvero micro, nel vero senso della parola. Impossibile vederla ad occhio nudo, quando è nell’acqua. L’unico effetto visivo è il colorito verdastro che quest’ultima tende ad assumere alla sua presenza.

Per “raccoglierla” occorre filtrare l’acqua con speciali setacci, così che si depositi una sorta di fango verde di una certa consistenza. Quel fango che in seguito viene pressato e passato in macchinari – che in qualche modo ricordano, in grande, i tradizionali torchietti che vengono utilizzati per fare il ragù di carne – che lo trasformano in tanti lunghi vermiciattoli che vengono in seguito tagliati in porzioni lunghe circa due centimetri a loro volta disposte su grandi vassoi inseriti in un forno per l’essiccazione.

Un vero superfood

Il risultato è un alimento per certi versi unico, un vero superfood che può essere consumato in tanti modi. Contiene un sacco di sali minerali come ferro, magnesio, manganese, potassio, calcio, fosforo, zinco e selenio; la vitamina A e, in pratica, tutte le vitamine del gruppo B, le vitamine C, E, K, H, oltre all’acido folico e a quello pantotenico; pigmenti come la ficocianina, la zeaxantina, la luteina, il betacarotene e la clorofilla; acidi grassi essenziali come omega 3 e omega 6; ha un basso contenuto calorico ed è povero di colesterolo.

E, come se non bastasse, è l’alimento vegetale che ha il più alto contenuto di proteine vegetali: 60-65%, tre volte le proteine della carne!

Un ottimo integratore naturale, si dice, ideale sia per diete vegetariane sia per diete vegane. Consigliato a chi pratica sport, a chi soffre di carenze vitaminiche ed è in cerca di nuova energia per il proprio corpo. Non contiene iodio e non contiene glutine.

Un incontro fortunato

Tutto bene, tutto perfetto. Ma perché parlare di quest’alga e delle sue vicissitudini pugliesi sulle pagine di un giornale che si occupa di sostenibilità?

Perché accade che un giorno i fondatori di ApuliaKundi incontrino i fratelli Andriani – Michele e Francesco – insieme al padre Felice fondatori e titolari dell’Andriani SpA, una tra le più importanti realtà del settore innovation food, con una produzione dedicata interamente alla pasta senza glutine, ottenuta utilizzando ingredienti rigorosamente gluten-free come riso integrale, grano saraceno, avena, lenticchie, ceci, piselli e altri.

La Andriani ha la sua sede in Puglia, guarda caso a Gravina in Puglia. Se vi capita di andarci, resterete stupefatti. Gravina è bellissima, il suo centro storico è un gioiello da visitare, tanto bello che anche… James Bond ne è rimasto affascinato: il 25esimo film della serie dedicata all’agente segreto britannico, dal titolo “No Time no die”, si apre con una scena spettacolare girata nell’area del Ponte acquedotto, monumento che non manca mai nelle più belle foto panoramiche che ritraggono il paese dell’Alta Murgia.

Il paese è bello, sì, ma la sua area industriale non è per niente diversa da tutte le aree industriali del mondo: capannoni, piazzali asfaltati con erbacce, cancelli e facciate scrostati dal passare del tempo. Ma ecco, tra un allevamento di bestiame e un’azienda meccanica, comparire come per incanto una palazzina che sembra essere appena stata trasportata direttamente dalla Svizzera.

Sostenibilità da tutti i pori

Si capisce subito che tutto, in quella sede, è improntato alla sostenibilità. Lo si capisce ancora prima di varcarne il cancello, grazie alle colonnine cui sono collegate due auto elettriche sotto carica. Quando ci si incammina nel vialetto che conduce all’entrata lo Smart Building di Andriani ti appare in tutto il suo splendore.

E quando varchi la soglia capisci perché questo progetto ha ottenuto a inizio 2021 il secondo gradino più alto del podio del premio internazionale HDL Awards, con la motivazione “Esempio italiano di eccellenza nell’edilizia direzionale d’avanguardia”.

Qui si trasuda sostenibilità da tutti i pori, partendo dal sistema HDL Automation con cui vengono ottimizzati il risparmio energetico e il controllo ambientale dell’intero Building, “perfettamente in linea con la missione aziendale orientata a un’economia sostenibile e circolare”.

L’attenzione al benessere dei dipendenti è totale, basata sui concetti di flessibilità e liquidità e sul ripensamento della suddivisione degli spazi secondo la logica “Felicità sul lavoro, pensiero positivo”, tale da agevolare il libero flusso di pensiero e la collaborazione. I dipendenti, in pratica, possono scegliere liberamente dove, come e con chi lavorare, in base agli obiettivi da raggiungere.

Il sistema della scrivania fissa, qui, è del tutto superato, come sottolinea lo stesso Michele Andriani: «Il numero delle scrivanie è volutamente inferiore a quello dei dipendenti, che sono quindi invogliati a vivere l’intero palazzo e le parti esterne come un unico, grande e comodo luogo di lavoro da fruire in tutta la sua intierezza». L’illuminazione varia la sua intensità in base al ciclo circandiano, si spegne quando negli ambienti non ci sono persone; i sistemi oscuranti, sulle ampie finestre, sono motorizzati con comando indicizzato alla termoregolamentazione…

Una visione comune

Qui si rischia di perdere il filo del discorso, e invece dobbiamo tornare alla protagonista della nostra storia, la Spirulina.

Come detto Andriani e ApuliaKundi si incontrano e hanno un’idea per certi versi rivoluzionaria: «Perché non creare una gamma di pasta alla spirulina?» preparata, oltre tutto, con l’alga prodotta direttamente all’interno dello spazio industriale di Andriani?

Detto, fatto. Nel piazzale antistante la parte riservata alla produzione della pasta Andriani, viene predisposta una grande serra con vasconi pieni d’acqua in cui coltivare l’alga. Un’acqua, si badi bene, che è quella utilizzata per la produzione della pasta nello stabilimento che è lì di fianco, ovviamente recuperata, depurata e resa utile alla bisogna. Se non è economia circolare questa…

È tutto molto semplice, all’apparenza, nei vasconi sotto la serra ci sono solo delle grandi pale che permettono all’acqua di essere sempre in movimento. Ogni giorno l’acqua viene “passata al setaccio” e si raccoglie la fanghiglia che, come detto prima, dopo vari passaggi diventerà pasta. Per ora spaghetti ma, quasi sicuramente, presto anche altri tipi di pasta.

Un accordo, quello costruito dalle due realtà pugliesi, che ha ovviamente una base commerciale, ma che è strutturato su una visione comune rispetto a un concetto di sviluppo ecosostenibile perseguito attraverso azioni di studio e ricerca, collaborazione con enti e università, reti di collaborazione a livello locale e globale. Un’unità di intenti che viene condivisa con i produttori e i distributori e con tutte le realtà che in qualche modo sono coinvolte nel progetto.

Parola d’ordine: “emozione”

Si fa presto a dire “Io metto la Spirulina, tu i macchinari per fare la pasta”, detto così sembra tutto molto semplice. Ma dietro a un prodotto nuovo, rivoluzionario come questo, si celano lunghi mesi di ricerca, di applicazione, di tentativi volti a rendere l’alimento più gradevole e consumabile possibile. E c’è anche tanto amore. Questa cosa – a costo di uscire una volta di più dal discorso generale – bisogna dirla. Quando i protagonisti di questa storia parlano dell’alga Spirulina lo fanno con grande rispetto, quasi con la voce tremante. La consapevolezza di trovarsi di fronte a un organismo sopravvissuto alle ere più antiche, che viene da un passato per noi inimmaginabile, rende quest’alga un’entità che merita il più grande rispetto.

Quando, in questa giornata speciale che ha fornito l’occasione centrale del nostro racconto, è stato tagliato il nastro del “Parco della Spirulina” e tutti i convenuti sono stati invitati a entrare nella grande serra con i vasconi, ho avvertito la stessa emozione e sensazione provata leggendo “Il grande ritratto”, forse il romanzo meno conosciuto di Dino Buzzati. Sarebbe troppo lungo spiegare perché e per come, meglio leggere direttamente questo “racconto lungo” per capire quali possano essere le assonanze (poi comunque Buzzati vale sempre la pena di essere letto…).

La parola “emozione” è ricorsa spesso in questa giornata, a riprova che industria, commercio e sensibilità possono andare a braccetto, quando lo vogliono.

La sostenibilità conviene?

Ai fratelli Andriani abbiamo chiesto: «La vostra è un’azienda modello, che fa della sostenibilità il proprio stile di vita. Ma alla fine, conviene votarsi a questo modo di affrontare le cose?». La risposta può apparire scontata, ma non lo è: «Questa è l’unica idea che abbiamo di fare impresa: non riusciremmo a farla sapendo che stiamo creando un impatto negativo sull’ambiente, sulla società e sulle altre persone. Se la guardiamo invece dal punto di vista economico, la domanda giusta potrebbe essere un’altra: “Quanto costerebbe non farlo?”. È giunto il momento per tutti di pensare al “dopo”: per noi sostenibilità è sinonimo di “durabilità”, e si traduce nel saper guardare non al breve, ma al medio-lungo termine».

PASTA ALLA SPIRULINA: I PROTAGONISTI

Andriani SpA

È considerata tra le più importanti realtà nel settore innovation food, specializzata dal 2009 nella produzione di pasta naturalmente senza glutine di alta qualità, sia con il suo brand Felicia sia conto terzi. La lavorazione avviene all’interno di uno stabilimento produttivo 100% gluten free: sette linee produttive per oltre 55 differenti formulazioni. Tra i principali player del mercato della pasta gluten free, Andriani è presente nelle maggiori catene distributive di oltre 30 Paesi nel mondo. Nel novembre 2020 l’azienda si è trasformata in Società Benefit, in attuazione della volontà di perseguire non solo il profitto ma anche più finalità di beneficio comune.

ApuliaKundi

È una start-up pugliese che si occupa di ricerca nell’ambito delle micro alghe. Produce la Spirulina K, italiana, biologica, naturale e pura al 100%, e realizza prodotti funzionali ad alto valore nutrizionale con la Spirulina K, che stata messa a punto dal team ApuliaKundi dopo un lungo periodo di ricerca sul processo di produzione e sul prodotto finale. Fornisce inoltre, servizi di supporto all’innovazione delle imprese per lo sviluppo di nuove economie come l’algacoltura.

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 22 (anno 6 n. 4) settembre-ottobre 2021

La Grande Casa: «Il bilancio sociale, un’opportunità!»

In evidenzaLa Grande Casa: «Il bilancio sociale, un’opportunità!»

«La scelta è stata quella di usare la redazione del bilancio come momento di consapevolezza interna – precisa Liviana Marelli, presidente della Cooperativa Sociale La Grande Casa – e quindi abbiamo pensato di allargare la dimensione partecipativa a un numero importante di soci e non riservarla soltanto al gruppo dirigente, così da giungere alla costruzione di una modalità che poi è diventata processo, metodologia, utilizzo di strumenti e infine anche consegna di responsabilità».

«Quando abbiamo avviato il nostro lavoro sul bilancio sociale partecipato l’abbiamo fatto non per adempiere semplicemente a un obbligo formale ma perché crediamo fermamente nell’importanza di questo strumento», sottolinea Liviana Marelli, presidente della cooperativa sociale “La Grande Casa”, che ha la sua sede principale all’interno della Cascina Barraggia, a Sesto San Giovanni.

Non è stato un anno facile, quello appena trascorso, un anno moto diverso da quelli che l’hanno preceduto, ne conosciamo tutti il motivo. Nonostante questo, però, La Grande Casa si è imposta il traguardo di non rinunciare agli obiettivi che si era prefissata, senza fermarsi o tornare indietro: «Il nostro pensiero è stato: “Come possiamo fare tesoro di quello che ci sta succedendo ora? Che cosa ci dice questo momento e come la nostra cooperativa può rileggersi rispetto al proprio ruolo di impresa sociale e di soggetto della comunità locale?”. Questa rivisitazione del nostro mondo interno e del legame con quello che succede al di fuori, ci ha fatto dire che non dovevamo rinunciare ai tre obiettivi che avevamo fissato nel 2019, quando eravamo ancora ignari di quello che sarebbe successo di lì a pochi mesi».

Il Piano strategico d’impresa

Il primo di questi tre obiettivi è la costruzione del piano strategico d’impresa. «Noi diciamo – spiega la presidente – che il DNA delle cooperative sociali ha come riferimento tre elementi fondamentali: il “cortile” e quindi il mondo interno e la relazione, la “piazza” e quindi il legame con il territorio e il “mercato”. Il Piano strategico d’impresa è lo strumento che abbiamo elaborato per tenere insieme queste tre vocazioni proprie della cooperazione sociale. L’abbiamo “costruito” e approvato nel 2020, in piena pandemia. Gli elementi che lo compongono riguardano: come sostenere l’impresa, come svilupparla e come creare al suo interno un ricambio generazionale, in attuazione di un modello organizzativo che non si basi sui singoli e che preveda una leadership fondata sulla responsabilità e non sul personalismo».

Il bilancio sociale partecipato

Il secondo obiettivo è produrre il bilancio sociale partecipato. «La scelta è stata quella di usare l’opportunità del bilancio sociale come momento di consapevolezza interna – precisa la dottoressa Marelli – e quindi abbiamo pensato, in collaborazione con i consulenti di Refe-Strategie di sviluppo sostenibile, di allargare la dimensione partecipativa a un numero importante di soci e non riservarla soltanto al gruppo dirigente, così da giungere alla costruzione di una modalità che poi è diventata processo, metodologia, utilizzo di strumenti e infine anche consegna di responsabilità. È stata l’occasione per raccontarci che cosa la cooperativa “produce”, cosa che ci ha permesso di individuare uno schema di lavoro in cui sia specificato “chi fa che cosa” e come ognuno di noi possa anche internamente portare il suo apporto nella consapevolezza e nella condivisione di priorità e strategie».

Il bilancio partecipato ha avvicinato le varie realtà che compongono “La Grande Casa”, che coinvolge circa 380 lavoratori distribuiti su 10 territori (Carate Brianza, Castano Primo, Cinisello Balsamo, Desio, Garbagnate Milanese, Milano, Lecco-Merate, Olgiate Comasco, Sesto San Giovanni-Cologno, Vimercate-Trezzo): «È giusto che tutti sappiano che cosa fanno i colleghi che lavorano in aree diverse dalla loro. Non è “altro da me”, è il nostro pensiero, quello che viene fatto in un altro contesto territoriale o in un’altra area di intervento. Abbiamo individuato i gruppi di lavoro, che resteranno stabili, e ciò che vogliamo fare nell’immediato futuro, anche se si sa che il mondo del sociale non è statico, è in continuo movimento e trasformazione. Ma nel bilancio abbiamo comunque fissato i referenti, i target e i tempi e i modi di lavoro con cui raggiungeremo gli obiettivi fissati».

Un impegno che riguarda anche la comunicazione verso l’esterno: «La versione “smart” del bilancio sociale, molto più ristretta rispetto al vero e proprio bilancio è lo strumento che, pensiamo, tutti i soci devono riuscire a utilizzare per rendicontare e comunicare all’esterno chi siamo e come raggiungiamo gli obiettivi normativi e di mission».

La valutazione dell’impatto sociale

Il terzo obiettivo riguarda la valutazione dell’impatto sociale generato dall’attività della cooperativa. «Il tema della valutazione d’impatto ci sembra che completi ulteriormente il tema della responsabilità sociale – conclude la presidente della cooperativa – non solo perché “a me cooperativa sociale” permette di dire in maniera chiara e partecipata che cosa faccio, ma anche perché mi permette di assumere una responsabilità d’impresa nel dirti qual è il benessere che produco. Per valutare l’impatto economico della nostra attività, in questi mesi stiamo sperimentando, nella sola area dell’educativa domiciliare, uno strumento digitale che contiamo di usare a partire da gennaio 2022. La sua applicazione è frutto di un lavoro partecipato dai coordinatori e dagli educatori e ci permetterà di avere la messa a terra della valutazione d’impatto di quest’area. A seguire valuteremo su quale altra area applicare questo schema, perché il nostro obiettivo è quello di essere autonomi nell’uso di strumenti che ci permettano di comunicare quale impatto sociale abbiamo sul territorio».

La Grande Casa

La Grande Casa è una cooperativa sociale nata nel 1989, che ha l’obiettivo di favorire e promuovere diritti, sostenere e rispettare ogni singolo progetto di vita, favorire l’integrazione sociale e lavorativa delle persone piu fragili. Opera in particolare in favore di donne, minorenni e famiglie, giovani, migranti e comunità locali in 10 aree territoriali in Lombardia. Nel 2020 ha lavorato con 11.515 tra adulti, bambini e ragazzi seguiti in servizi e progetti. Ha coinvolto oltre 4.600 persone in eventi e iniziative di formazione. Ha accolto 55 bambini nelle comunità residenziali, 50 mamme con bambini o donne sole nelle case di accoglienza, protezione sociale e avvio all’autonomia.

Obiettivi principali delle attività di rendicontazione

Obiettivi interni

  • Analisi interna volta a esplicitare la visione, gli obiettivi strategici e il funzionamento dell’organizzazione, con la verifica puntuale degli interventi e delle azioni realizzate, delle risorse allocate e dei risultati ed effetti ottenuti
  • rinforzo dei sistemi di performance management con particolare riguardo alla misurazione degli effetti e degli impatti
  • condivisione di strategie, policy e sistemi di misurazione in modo da aumentare la consapevolezza dei diversi livelli di responsabilità interni
  • connessione tra le attività dei singoli e gli obiettivi generali dell’organizzazione, promuovendo responsabilità, cultura del dato e attenzione alla produzione di valore (social impact).

Obiettivi esterni

  • Misurare e comunicare il senso e il valore del lavoro svolto per rinforzare il dialogo e la relazione di fiducia con i diversi stakeholder: soci, lavoratori, volontari, beneficiari, istituzioni, finanziatori, comunità
  • restituire una misurazione non solo dell’efficacia gestionale (risorse e risultati) ma soprattutto dell’efficacia sociale (effetti e impatti) esplicitando il senso e il valore del lavoro svolto e rendendo tangibile ciò che non può essere tradotto solo dai numeri: qualità sociale, benessere, ecc.
  • dare conto in modo trasparente dell’impiego delle risorse, anche derivate dal finanziamento di progetti e raccolta fondi.

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 22 (anno 6 n. 4) settembre-ottobre 2021

3 luglio 2021, quando la plastica monouso diventò illegale

In evidenza3 luglio 2021, quando la plastica monouso diventò illegale

Per quanto riguarda l’utilizzo della plastica nella vita di tutti i giorni, quella del 3 luglio 2021 sarà ricordata come una giornata storica. Quello è il giorno, infatti, in cui in Europa – a seguito dell’entrata in vigore della direttiva del Parlamento Europeo 2019/904 “Sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente” – è diventato illegale produrre oggetti in plastica monouso come posate, piatti o contenitori per alimenti.

Quando sui giornali leggiamo notizie di questa portata, magari distrattamente, sull’autobus, sotto l’ombrellone o tra una riunione di lavoro e un’altra, siamo portati a pensare che si parli di problemi che riguardano altri, che interessino e tocchino solo “i massimi sistemi”. Non è così, se pensiamo che il problema non è la plastica in sé, ma l’uso che se ne fa. La plastica non è il demonio, molti suoi utilizzi – pensiamo ad esempio a quelli che riguardano il mondo della sanità – hanno cambiato in meglio la nostra vita.

Il problema è che con il passare del tempo l’uso di questo materiale, altamente inquinante perché difficile da smaltire, si è talmente diffuso da non poter più essere tenuto sotto controllo. O, meglio, sono diventate necessarie leggi proprio come quella che è appena entrata in vigore per “tentare” di frenarne la forza devastatrice.

E l’altro problema è che nessuno si sente diretto responsabile per le migliaia di tonnellate di plastica che ogni giorno si riversano nei fiumi e nei mari del nostro pianeta. Pensiamo sia un problema che riguarda le grandi aziende, la grande produzione o distribuzione. In parte è vero, ma solo in parte: è sorprendente scoprire che i maggiori danni all’ambiente sono quelli procurati da piccoli oggetti di uso quotidiano come i tappi delle bottigliette, i filtri delle sigarette o le cannucce con cui sorseggiamo i nostri cocktail. L’utilizzo monouso della plastica – protagonista dei nostri pic-nic, delle nostre feste, ma anche dei nostri acquisti nei supermercati – ha rappresentato indubbiamente una grande conquista, un passaggio epocale della storia moderna del mondo occidentale. Detto questo, dobbiamo oggi essere capaci di fare un deciso dietro-front, privilegiando, dove possibile, altri materiali innovativi, riciclabili e sostenibili.

E, colpo di scena, magari anche privilegiando nuove tipologie di plastica perché, come viene sottolineato tra le note della stessa direttiva europea, per essere considerati “virtuosi”, i prodotti di plastica “dovrebbero essere fabbricati tenendo conto di tutta la loro durata di vita. La progettazione dei prodotti di plastica dovrebbe sempre tenere conto delle fasi di produzione e utilizzo nonché della riutilizzabilità e riciclabilità del prodotto”.

Pubblicato nella rubrica “Lupo Solitario” sul magazine CSROggi n. 21 (anno 6 n. 3) maggio-giugno 2021

V-Finance: PMI, la quotazione aiuta la sostenibilità

In evidenzaV-Finance: PMI, la quotazione aiuta la sostenibilità

«Il mercato borsistico AIM Italia – sottolinea Anna Lambiase, AD di V-Finance – rappresenta per le piccole e medie aziende una grande opportunità per ottenere capitali utili a sviluppare progetti sostenibili. Il nostro ruolo è quello di aiutare le PMI nel loro percorso verso la quotazione, supportandole anche nell’importante attività di rendicontazione del loro impegno sostenibile».

V-Finance è leader punto di riferimento istituzionale in Italia sulle tematiche ESG per imprese e investitori. Finanza sostenibile, governance e mercato dei capitali sono i terreni su cui si muove questa società che fa parte del Gruppo IR Top Consulting, e che negli anni ha sviluppato un importante track record sul mercato dei capitali per le PMI.

Ne parliamo con Anna Lambiase, fondatrice del Gruppo e Amministratore delegato di V-Finance, insignita nel 2019 dal Governo inglese dell’Award per la Green Finance.

Dottoressa Lambiase, ci può raccontare qual è stato finora il percorso di V-Finance nell’ambito del sostegno alle aziende in ottica di sostenibilità?

«Comincerei dalla fine, sottolineando che V-Finance dallo scorso gennaio 2021 è Sustainable Finance Partner di Borsa Italiana per le iniziative legate alla sostenibilità. Una partecipazione in un ambito molto specifico, legato all’obiettivo di creare una cultura innovativa a livello nazionale sulla finanza sostenibile, per il mercato italiano dei capitali. È una partnership cui partecipa un numero ristretto di soggetti selezionati, a oggi meno di 20, nata con l’obiettivo di legare il tema della sostenibilità a quello del finanziamento e dell’investimento. Per noi è un punto di arrivo e un grande riconoscimento alla nostra attività di assistenza alle piccole e medie imprese nel percorso di sostenibilità da loro sostenuto in vista dell’accesso in borsa per sviluppare quotazioni green».

Tutto è nato dieci anni fa…

«Sì, V-Finance è nata nel 2011, come spin-off di IR Top Consulting, che, fondata nel 2001 è da tempo boutique finanziaria leader in Italia nella consulenza direzionale per gli Equity Capital Markets e Advisor Finanziario per la quotazione. Nel 2012 abbiamo creato una sorta di tassonomia della green economy, in un momento in cui non era ancora ben chiaro che cosa il mondo green rappresentasse. Abbiamo individuato 11 settori distinti e all’interno di questi abbiamo costruito un database di aziende monitorate sui financials. L’anno successivo abbiamo lanciato come soci promotori e investitori, la prima SPAC (Special Purpose Acquisition Company, è una particolare tipologia di società veicolo destinata alla raccolta di capitali di rischio attraverso la quotazione, ndr) tematica sulla green economy, un veicolo di investimento che abbiamo quotato in borsa e che ha raccolto 35 milioni di euro realizzando nel 2015 la Business Combination con Zephyro, azienda successivamente acquisita da Edison. È stata una delle SPAC con migliore ritorno, come operazione finanziaria. Abbiamo continuato a lavorare in questo ambito, rivolgendoci essenzialmente alle piccole e medie imprese italiane, e nel 2019 abbiamo ottenuto il riconoscimento Financial Green Award da Londra, che ha per noi un grande significato dal momento che, come sappiamo, la finanza nasce proprio nei Paesi anglosassoni. Gli anni 2020 e 2021, quelli del Covid, sono stati per noi anni di crescita e consolidamento grazie all’esplosione dell’attenzione alle tematiche della sostenibilità. Abbiamo continuato a lavorare su questi temi, focalizzandoci però anche sui sistemi di reporting per le imprese italiane».

Dal punto di vista dell’attività di reporting, qual è il vostro supporto alle PMI italiane?

«Questo è un settore che in V-Finance è divenuto sempre più importante, fino a divenire il centro della nostra attività. Nello specifico, aiutiamo le aziende a stendere il bilancio di sostenibilità, quel documento che l’azienda, che sia o meno quotata, elabora sulla base degli aspetti economico-finanziari, ambientali e sociali in conformità con i criteri di rendicontazione GRI stabiliti per legge. Posso dire questo: quando incontriamo le aziende, spesso le aiutiamo semplicemente a sistematizzare situazioni già esistenti al loro interno. In pratica sintetizziamo o razionalizziamo processi che possono essere letti nella logica della sostenibilità. È evidente, però, che nel fare questo noi stimoliamo un pensiero strategico improntato non solo alla redditività – che non viene eliminata, anzi, deve continuare perché i nostri investitori la cercano –, che prevede anche lo sviluppo di qualità e benefici comuni presi in considerazione da imprenditori spesso molto sensibili. Approcciare questi temi significa avere una responsabilità verso l’esterno che prevede una rendicontazione che deve essere onesta e deve essere fornita anche quando, nella peggiore delle ipotesi, non si raggiungono gli obiettivi. Già il fatto di porsi degli obiettivi secondo me è comunque un elemento di responsabilità e può aprire l’azienda a nuove iniziative. Ci sono studi americani che dimostrano che le aziende sostenibili resistono di più nel tempo rispetto alle altre, perché hanno un monitoraggio più forte dei rischi che va a beneficio anche dei team che lavorano all’interno dell’azienda. Noi vogliamo esserci, in questo percorso, e per farlo dobbiamo continuare a crescere, a studiare e ad approfondire per farci un po’ i precursori di un processo di attenzione a questi temi di qualità. Questo oggi è il nostro core-business, ma la nostra attività non si ferma lì: una volta elaborato il report, noi studiamo, per ogni azienda, un percorso di sostenibilità suddiviso in tre tappe fondamentali».

In che cosa consistono queste tre tappe?

«La prima tappa consiste nel trasformare la società in Benefit corporation, quindi integrare il proprio oggetto sociale, accanto all’attività tipica aziendale volta al profitto economico, anche un’attività di beneficio comune, basato su obiettivi non prettamente finanziari. Sempre in questo ambito aiutiamo le aziende a trasformarsi e a ottenere la certificazione “B-corp”. La seconda tappa riguarda la comunicazione della sostenibilità aziendale verso gli investitori ma anche verso i vari stakeholder: fornitori, clienti, comunità di riferimento… Studiamo piani di comunicazione molto apprezzati dalle aziende perché permettono loro di ottenere una sorta di bollino di qualità del proprio brand e di essere riconosciute come aziende sostenibili. Aspetto importante, in particolare per le aziende quotate, che sono sempre più appetibili dagli investitori che cercano di impiegare i propri capitali in fondi green. L’ultima tappa della nostra ttività, è quella che riguarda il supporto prestato nel percorso che porta alla quotazione green. È una quotazione che noi proponiamo sul mercato AIM Italia, dedicato alle piccole e medie imprese ad alto potenziale di crescita. In questo ambito vantiamo una leadership riconosciuta negli ultimi 10 anni di attività e possiamo dire di essere il marchio di riferimento».

Perché una PMI dovrebbe aspirare a una quotazione Green?

«Il mercato borsistico AIM Italia rappresenta per le piccole e medie aziende una grande opportunità per ottenere capitali utili a sviluppare progetti sostenibili. Molte aziende hanno già di per sé un core-business legato a ambiti molto vicini al concetto di sostenibilità, ma questo non è sufficiente. Che cosa avviene con la quotazione nel mercato AIM? Che l’azienda ottiene capitale per sviluppare nuovi progetti. Stiamo parlando di risorse finanziarie da impiegare in piani di sviluppo dimensionale, per esempio, o che possono essere legati a ricerca e sviluppo per nuove tecnologie o innovazioni da impiegare anche in operazioni straordinarie, come operazioni di acquisizione. Dalla quotazione l’azienda esce dunque molto rinforzata, anche nei confronti delle banche, che oggi sono molto sensibili e attente, nel loro rapporto di debito, agli indicatori sostenibili. La quotazione procura inoltre un grande ritorno mediatico, aumenta lo standing aziendale e offre una grande visibilità all’impresa. Senza contare la possibilità di offrire alla stessa azienda un valore oggettivo che è dato dal numero delle azioni moltiplicato per il prezzo: la liquidità degli azionisti e la trasparenza del valore agevolano l’ingresso di nuovi azionisti e favoriscono un’ulteriore crescita di valore dell’azienda».

Qual è la tipologia di piccole e medie imprese che, in base alla vostra esperienza, decide di quotarsi?

«È importante sottolineare che la quotazione green non è per tutti, è importante che all’inizio di questo percorso venga svolto anzitutto uno studio di fattibilità – e di questo ci occupiamo noi – con cui si certifichi l’effettiva esistenza, all’interno dell’azienda, dei requisiti sostanziali. Il percorso è poi molto impegnativo, così come quello della sostenibilità, l’azienda deve sapersi assumere responsabilità importanti. Le PMI che decidono di quotarsi hanno in media una dimensione di 38 milioni di euro di fatturato. Oggi, nel mercato AIM Italia, sono 140, con una capitalizzazione complessiva che sfiora i 7 miliardi di euro. La raccolta media è di 6,9 milioni di euro, per un totale di 4 miliardi di euro di raccolta da quando è nato il mercato. Tra i settori rappresentati, al primo posto c’è la tecnologia. Seguono l’industria, il mondo dei media, la finanza e le energie rinnovabili. Dal punto di vista territoriale, il 38% delle PMI ha la propria sede in Lombardia. Seguono Lazio, Emilia Romagna e Veneto».

Qual è la sua previsione per il futuro? È un mercato destinato a espandersi?

«Abbiamo contribuito allo sviluppo sostenibile di questo mercato in maniera sostanziale. Sono ormai 10 anni che abbiamo dunque il polso sugli investitori che decidono di accedervi e posso dire che l’attenzione verso i “prodotti” green è cresciuta nel tempo in maniera esponenziale procurando da una parte opportunità di investimento di eccellenza e dall’altra opportunità di utilizzo di fondi per l’attuazione di progetti con un forte impatto sostenibile. Questa unità di intenti fa sì che questo mercato finanziario – che rispetto ad altri Paesi è ancora molto “contratto” – cresca ancor più nei prossimi anni, fino a diventare lo strumento finanziario più importante per lo sviluppo delle PMI».

Ritiene che le PMI, in generale, si stiano accorgendo di questa preziosa opportunità?

«Sì, stanno capendo che la quotazione è un obiettivo importante da raggiungere per essere “notate” dalle istituzioni finanziarie che, a dispetto del fatto che le PMI rappresentino buona parte dell’eccellenza produttiva italiana, spesso tendono a ignorarle. Finora il nostro Gruppo ne ha portate in Borsa più di 20, tutte aziende che coprono nicchie di mercato e hanno una fortissima componente di ricerca, sviluppo e innovazione. La Borsa, lo ripeto non è per tutti, noi cerchiamo di aiutare le aziende più virtuose e appetibili dal punto di vista del mercato dei capitali. Sono realtà che ora stanno crescendo anche in termini occupazionali, perché questa è un’altra opportunità offerta dal mercato finanziario: la quotazione crea occupazione e questo è un elemento molto significativo, da non mettere di certo in secondo piano».

Un’ultima domanda, dottoressa Lambiase: le PMI che si quotano sono in grado poi di mantenere la loro nuova condizione, diciamo così, “pubblica”?

«È evidente che l’azienda che si espone in questo modo deve saper mantenere un profilo di trasparenza e, in particolare, deve mantenere le promesse fatte agli investitori, deve cioè raggiungere gli obiettivi che si è prefissata. Non è un impegno semplice, posso però assicurare che tutte le aziende che abbiamo accompagnato nel loro percorso di quotazione si sono finora dichiarate assolutamente soddisfatte dei risultati ottenuti».

ANNA LAMBIASE

Nel 1993 consegue la Laurea in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi di Pavia e, nello stesso anno, un Master in Finanza d’Impresa. Dal 1995 è iscritta all’Albo dei Dottori Commercialisti di Busto Arsizio e nel 2001 consegue un secondo Master in E-Business presso il Politecnico di Milano. Dal 2004 è analista finanziario iscritta all’AIAF. Dopo esperienze internazionali presso banche d’affari nel Corporate Finance e nei processi di IPO, nel 2000 fonda IR Top Consulting, boutique finanziaria leader in Italia nella consulenza direzionale per gli Equity Capital Markets e la quotazione in Borsa. Nel 2011 fonda V-Finance, focalizzata sulla finanza sostenibile e punto di riferimento tra società, Capital Markets e tematiche ESG.

Nel 2013 lancia la prima SPAC sulla green economy, GreenItaly1, quotata sul mercato AIM. È autrice del libro “La quotazione delle PMI su AIM Italia e gli investitori istituzionali”. Ricopre cariche di Consigliere di amministrazione in società quotate. Ha collaborato con il Governo Gentiloni per la definizione della misura fiscale del credito d’imposta sui costi di quotazione delle PMI. Nel 2017 realizza PMI CAPITAL, il primo database digitale su AIM Italia. Nel 2019 viene insignita dal Governo inglese dell’Award per la Green Finance. Nel 2021 viene nominata Vice Presidente di AssoAIM.

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V-FINANCE

“Sustainable Finance Partner di Borsa Italiana” è la società del Gruppo IR Top Consulting focalizzata sulla finanza sostenibile e ESG Advisory. Costituita nel 2011, si afferma rapidamente come punto di riferimento della green economy con un’approfondita analisi finanziaria delle società quotate “cleantech” (report “Green Economy on Capital Markets”). Nel 2013 è Investitore e promotore di GreenItaly1, la prima SPAC tematica dedicata all’investimento in società green. Nel 2019 ottiene la qualifica di Listing Sponsor per Euronext Paris e riceve l’award per la green finance dal Consolato UK in Italia. Ha sviluppato 4 practice; DNF e Bilancio di sostenibilità, IR Strategy ESG, Benefit e B-Corp Consulting, IPO green. (www.v-finance.it)

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 21 (anno 6 n. 3) maggio-giugno 2021

Medtronic Innovation Lab, un ponte tra talento e impresa

In evidenzaMedtronic Innovation Lab, un ponte tra talento e impresa

Il progetto messo in campo dall’azienda che si occupa di tecnologie, servizi e soluzioni mediche pone competenze ed eccellenze italiane al servizio di idee e progettualità in grado di migliorare la cura e l’assistenza sanitaria oltre che di promuovere la crescita economica e l’occupazione nel Paese.

Medtronic, azienda leader di tecnologie, servizi e soluzioni mediche, mette in campo il suo progetto per l’Italia “Medtronic Open Innovation Lab”, un laboratorio diffuso e connesso che intende creare un ponte tra università e mercato, tra talento e impresa, ponendo competenze ed eccellenze italiane al servizio di idee e progettualità in grado di migliorare la cura e l’assistenza sanitaria e al contempo promuovere la crescita economica e l’occupazione nel Paese. Un progetto distribuito sul territorio italiano, che vede interconnesse tra loro le realtà coinvolte di Milano, sede di Medtronic Italia, Napoli, Salento e Mirandola.

«Medtronic non si ferma – dichiara Michele Perrino, presidente e amministratore delegato di Medtronic Italia – e rilancia, per contribuire alla ripartenza del Paese con importanti investimenti di lungo periodo volti a creare occupazione, crescita e migliorare le cure per la salute. Investiamo anche al Sud per valorizzare le eccellenze di questo territorio che sono tante e che, a causa di un momento difficile che tutti stiamo vivendo, hanno bisogno di essere potenziate. A tal fine Medtronic intende accompagnare creando una rete che metta a sistema conoscenze, competenze e opportunità».

HealthTech Innovation hub (HI) a Napoli

In attuazione degli obiettivi di questo ambizioso progetto, Medtronic e l’Università Federico II di Napoli hanno dato il via a una collaborazione che promuove le competenze e le esperienze del territorio a livello nazionale e internazionale.

Il risultato di questa collaborazione si chiama HealthTech Innovation hub (HI), un polo dedicato allo sviluppo di tecnologie per la salute reso attivo presso il Centro Servizi Metrologici e Tecnologici Avanzati (CeSMA) del Complesso Universitario del quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio. L’invecchiamento della popolazione e le malattie croniche causano, ormai da anni, un aumento dei costi sanitari, minando la capacità di fornire cure adeguate a milioni di persone. La pandemia Covid-19 ha accelerato tutte le trasformazioni in atto, ribadendo l’importanza della centralità della cura e dell’assistenza come temi chiave per lo sviluppo del Paese. Per rispondere a queste sfide, HealthTech Innovation hub (HI) vuole creare un ecosistema di conoscenza aperta e condivisa che includa i giovani neolaureati, i centri di ricerca, le imprese e il territorio con l’obiettivo di accelerare l’innovazione al servizio della salute delle comunità creando opportunità e occupazione.
Tra i primi progetti di HI–HealthTech Innovation Hub c’è il Master MAKE Napoli – Medtronic Advanced Knowledge Experience, un percorso formativo destinato a studenti laureati in materie scientifiche ed economico-sociali, residenti nel Sud Italia, primo passo di un più ampio e ambizioso progetto del HealthTech Innovation hub (HI) che intende promuovere la collaborazione con altri attori già presenti all’interno del Campus.

«L’Ateneo Federico II – dice Matteo Lorito, Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II – aggiunge un nuovo tassello al suo palmarès di iniziative di promozione dell’innovazione e del trasferimento tecnologico a beneficio del tessuto industriale, economico e sociale del nostro Paese. Il nuovo Hub HI Healthtech Innovation Hub, in sinergia con un grande player di levatura internazionale come Medtronic, mira a essere una fucina di nuove soluzioni tecnologiche in ambito Healthcare, per meglio coniugare un nuovo paradigma di prossimità dei percorsi terapeutici, di interesse strategico se relazionato al corrente scenario emergenziale. L’iniziativa è pensata in ottica “Open Innovation”, per attrarre altre imprese che credono e vogliono investire nell’iniziativa, e per stimolare e promuovere, grazie anche ad azioni formative mirate, nuove idee imprenditoriali».

Il “Salento Biomedical District”

l’Università del Salento e Medtronic Italia, assieme all’Istituto di Nanotecnologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR Nanotec) e al Center for Biomolecular Nanotechnologies dell’Istituto Italiano di Tecnologia (CBN – IIT Lecce) hanno sottoscritto una proposta di collaborazione che ha portato alla creazione, in Puglia, di un innovativo Distretto biomedicale.

Obiettivo del “Salento Biomedical District” è creare una piattaforma attraverso cui veicolare, sviluppare e implementare la cultura biotecnologica, mettendo a fattor comune le esperienze accademiche e industriali per la creazione di valore nel settore healthcare. Alla luce delle tendenze in atto negli ultimi anni e con il drammatico impatto che l’emergenza Covid-19 ha determinato, il “Salento Biomedical District” vuole essere un facilitatore di opportunità, programmi e iniziative per investire sui talenti degli studenti e delle imprese, valorizzando così le loro idee ed esperienze.

Una collaborazione che si è consolidata con il progetto che ha portato ala creazione del nuovo corso di laurea in Ingegneria biomedica in avvio nell’Anno Accademico 2020/2021. Con il coinvolgimento di CNR e IIT, la partnership ha deciso di puntare a nuovi programmi di ricerca e innovazione anche finanziabili a livello regionale, nazionale, europeo o internazionale, e a iniziative di sviluppo delle competenze e del capitale umano anche con la definizione di ulteriori percorsi formativi universitari.

«L’Università può e deve essere volano di sviluppo del proprio territorio – le parole di Fabio Pollice, Rettore dell’Università del Salento –, ma per farlo deve promuovere un incrocio virtuoso tra risorse e competenze, tra potenzialità territoriali e prospettive globali. E così l’Università del Salento, attivando il Corso di Laurea in Ingegneria biomedica, non ha solo creato un nuovo percorso formativo a beneficio degli studenti del nostro territorio, ma ha dato vita a un progetto assai più ambizioso che è quello di creare nel Salento un Distretto biomedicale facendo leva sull’eccezionale concentrazione di competenze di cui questo territorio può disporre: oltre ai laboratori di ricerca del nostro Ateneo, quelli del CNR Nanotec, dell’IIT, dell’INFN, dell’ENEA, tutti caratterizzati da un’analoga specializzazione, una sorta di convergenza strategica che oggi diviene evidente e viene messa a sistema, ponendola al centro di un progetto territoriale di grande rilevanza economica. Non può dunque stupire che una grande azienda di livello globale, quale Medtronic, abbia guardato con interesse a questo progetto e abbia deciso nel giro di pochi mesi non solo di supportarlo ma addirittura di divenirne partner e promotore».

Il MAKE a Mirandola

Obiettivo di questo Master è quello di sviluppare e formare i leader di domani nel distretto biomedicale di Mirandola, il secondo per importanza al mondo dopo la Bay Area, perché possano affrontare e guidare i principali mutamenti che caratterizzeranno il nostro Sistema Sanitario. Avviato lo scorso gennaio, grazie al contributo di due partner principali, che supportano Medtronic nello sviluppo del programma, la fondazione MaverX e il Tecnopolo Mario Veronesi Mirandola, e alla partecipazione di PQE group, il Master è dedicato ai manager delle aziende del distretto, si chiuderà a maggio. 30 gli iscritti. Un percorso di formazione, ricerca e innovazione tecnologica per il benessere delle persone e la crescita della collettività, che coniuga esperienza accademica e know-how imprenditoriale. L’obiettivo è quello di facilitare la sinergia, il dialogo e la crescita puntando sulle forti potenzialità già presenti sul territorio.

«MAKE non solo è un corso di formazione molto qualificante – spiega Francesca Veronesi, Presidente Fondazione MaverX –: è anche un circuito di valore che mette in connessione persone di aziende grandi e piccole, esperti giovani e meno giovani, persone con competenze diversificate e complementari per creare scambio e opportunità di collaborazione molto oltre la fine del corso stesso».

«A Mirandola abbiamo un distretto internazionale con un tecnopolo di eccellenza quanto mai in sintonia rispetto all’innovazione e ai bisogni per il futuro del settore healthcare – dichiara Vincenzo Colla, Assessore allo Sviluppo Economico e Green Economy, Lavoro, Formazione della Regione Emilia Romagna –. Un sistema di relazioni, di conoscenza e di ricerca per promuovere sviluppo e far crescere competenze e capacità. Con il Covid abbiamo imparato che non c’è economia che regge senza la sanità. Per questo crediamo molto nella filiera della salute, di cui il distretto di Mirandola è parte importante, sicuri che diventerà sempre più strategica anche per creare imprese e lavoro di qualità».

L’Hack for Med Tour

È partito a dicembre 2020 l’Hack for Med Tour (www. hackformed.com) un hackathon itinerante di tre tappe – volto a ricercare e supportare progettualità innovative nel mondo healthcare e rivolto in particolare a giovani imprenditori, neolaureati o laureandi, start-up e tutti coloro che intendono sviluppare progetti innovativi e di valore in ambito Medtech –, che ha toccato i laboratori di Lecce, Napoli e Mirandola e che si concluderà a maggio, a Milano. L’obiettivo dichiarato da Medtronic, ideatrice del progetto, è cercare idee innovative, che possano godere di un percorso di “accelerazione”, nate dalla ricerca e dall’impresa nei settori della micro e nanoelettronica, delle nanotecnologie, delle biotecnologie industriali, dei materiali avanzati e delle tecnologie di produzione avanzata.

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IL RUOLO E LE APPLICAZIONI DELL’ETICA AZIENDALE

Riflettere sul ruolo e sull’importanza dell’Etica, la sua percezione e applicazione all’interno delle imprese del Life Science, ma non solo, da più punti di vista: normativo, psicologico, relazionale. È nata così l’iniziativa organizzata da Medtronic “Ruolo e applicazioni dell’etica aziendale”.

«La gestione aziendale e i processi organizzativi non possono ormai prescindere da aspettative in termini di integrità, onestà e trasparenza – spiega Paolo Recanatesi, Legal & Compliance Director di Medtronic Italia –. Un’azienda che ambisce al ruolo di leader deve necessariamente essere identificata non tanto sulla base di che cosa produce o di che cosa offre sul mercato, quanto piuttosto sul “perché” lo fa, cioè sulla spinta etica, sul credo che la anima e sul “come” lo fa. Nasce da qui l’importanza di trasmettere valori condivisi e comportamenti corretti in cui le persone si possano riconoscere, volti a garantire una corporate governance efficiente ed efficace».

Protagonista indiscusso, quando si parla di etica, è il Decreto legislativo 231/2001, che introduce la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società. Ma il concetto di responsabilità, insieme a quello di integrità professionale, è centrale in una prospettiva operativa non solo di etica degli affari, ma anche e soprattutto di benessere organizzativo. L’integrità professionale richiama la responsabilità personale e la correttezza delle decisioni manageriali. Per questo motivo, una “buona” azienda, a prescindere dalle dimensioni, sarà sempre più spesso chiamata ad assumere comportamenti etici e a promuovere iniziative finalizzate a sensibilizzare tutti i dipendenti su questo tema.

Un altro aspetto che assume un ruolo imprescindibile nel concetto di etica è la comunicazione non solo per quanto attiene alla divulgazione del Modello 231, ma anche in caso di whistleblowing, ossia di segnalazione di eventuali azioni illecite o fraudolente. Un meccanismo ancora da perfezionare in Italia, se si pensa che solo una parte dei comportamenti scorretti viene segnalata. Parte da qui la riflessione sul perché fatti eticamente scorretti continuino ad avvenire.

Un quesito che impone una valutazione su che cosa sia psicologicamente la scorrettezza professionale e cosa spinga ad alimentarla o a non segnalarla. Tante le riflessioni anche nell’attuale scenario pandemico che richiama fortemente al senso di responsabilità quale protagonista indiscusso nel contesto lavorativo di oggi.

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 20 (anno 6 n. 2) marzo-aprile 2021

Artemide, tradurre la tecnologia in qualità ed emozione

In evidenzaArtemide, tradurre la tecnologia in qualità ed emozione

«Sin dagli albori dell’attività – sottolinea Carlotta de Bevilacqua, Vice Presidente e CEO dell’azienda produttrice di lampade – abbiamo investito nella ricerca sulle tecnologie di produzione, sui materiali e sulle sorgenti. A questo filone è affiancata una ricerca per interpretare le diverse culture della luce nel mondo».

Dire Artemide è come dire design, innovazione, Made in Italy. Fondata nel 1959 da Ernesto Gismondi, l’azienda di Pregnana Milanese è oggi uno dei brand di illuminazione più conosciuti al mondo, distribuito in 98 Paesi. Le sue lampade hanno vinto i più prestigiosi premi internazionali – tra cui sei volte il prestigioso “Compasso d’Oro” –, sono considerate icone di design contemporaneo e per questo sono esposte nei principali musei d’arte moderna e design.

Alla base del successo di Artemide c’è da sempre la grande attenzione ad aspetti legati alla ricerca tecnologica, al dialogo con i grandi architetti ma anche all’indagine in campo socio-culturale. Il tutto finalizzato a ottenere “progetti innovativi capaci anche nel tempo di illuminare con la stessa forza il futuro”.

Lo sottolinea Carlotta de Bevilacqua, designer, docente di Design della luce al Politecnico di Milano, Vice Presidente e CEO di Artemide (nella foto sotto): «Insieme alla visione imprenditoriale, la ricerca costituisce uno strumento per tradurre la tecnologia in qualità ed emozione, in un linguaggio che è anche espressione di bellezza. Sin dagli albori dell’attività – sottolinea de Bevilacqua – abbiamo investito nella ricerca sulle tecnologie di produzione, sui materiali e sulle sorgenti; a questo filone è affiancata una ricerca per interpretare le diverse culture della luce nel mondo».

Com’è cambiato, nel tempo, l’approccio alla luce?

«Negli ultimi anni il settore della luce ha visto un’accelerazione tecnologica importantissima: la rivoluzione del LED e dell’e- lettronica prima e quella fotonica ora, stanno ridisegnando i confini progettuali e produttivi, rendendo la ricerca e la sua applicazione un fattore competitivo sempre più significativo. Considerando che il tempo del technology transfer è sempre più ridotto, i brevetti sono immediatamente applicati nei prodotti e resi disponibili per la distribuzione sul mercato».

Come state vivendo questo momento storico particolare, contraddistinto dalla pandemia? Quali effetti sta avendo sulla vostra attività di ricerca?

«Anche durante il lockdown la ricerca non si è fermata. Proprio in questo periodo abbiamo presentato Integralis, una tecnologia brevettata di luce che associa e integra la gamma spettrale visibile e invisibile in una formula innovativa in grado di sanificare e migliorare le qualità ambientali dello spazio. Le frequenze selezionate della luce visibile inibiscono lo sviluppo e la crescita di batteri, funghi e muffe e quelle UV deattivano i microorganismi patogeni, inclusi i virus. Da tempo, infatti, indaghiamo gli effetti della luce sul benessere psicologico e fisiologico dell’uomo e sull’ambiente. Oggi la luce può aiutare l’uomo a vivere in modo più sicuro gli spazi, tutelandone la salute grazie all’innovazione scientifica. Visione, innovazione e know how sono le chiavi strategiche necessarie per il futuro».

IL GRUPPO ARTEMIDE

Il Gruppo Artemide ha sede a Pregnana Milanese (Mi). Opera attraverso 24 società controllate e collegate e vanta una rete distributiva tra cui spiccano 55 showroom monomarca nelle più importanti città del mondo. I prodotti Artemide sono distribuiti in 98 diversi Paesi. Con cinque unità produttive in Italia, Francia, Ungheria e Canada, due vetrerie e una struttura di Ricerca e Innovazione supportata da laboratori di prototipazione e test all’avanguardia, il Gruppo impiega attualmente più di 750 dipendenti di cui 60 in attività di Ricerca e Sviluppo, a conferma del ruolo portante dell’innovazione quale componente chiave per il suo successo. (fonte: http://www.artemide.com)

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 20 (anno 6 n. 2) marzo-aprile 2021

Covid-19 e plastica monouso, un disastro annunciato

In evidenzaCovid-19 e plastica monouso, un disastro annunciato

Tra i tanti mali portati dall’epidemia di Covid-19 nel mondo, c’è anche quello dell’aumento esponenziale del consumo di plastica.

Le misure anti-diffusione del virus hanno infatti portato a un sensibile aumento dell’utilizzo di oggetti di plastica monouso, proprio in un momento storico in cui si cominciava a rinunciarvi, in attuazione di politiche volte a salvaguardare l’ambiente, soprattutto i mari del pianeta.

Oltre agli usi quotidiani (piatti, posate, bicchieri, contenitori alimentari, ecc.), l’aumento deriva dall’inevitabile uso dei dispositivi di protezione: mascherine, guanti, camici, bottiglie di disinfettanti… Per farci un’idea possiamo dire che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha calcolato che ogni mese nel mondo vengono utilizzati circa 126 miliardi di mascherine e 65 miliardi di guanti di plastica.

Ma non è solo questo. Gli acquisti online, aumentati per effetto di lockdown, zone rosse, ecc., presuppongono un abbondante utilizzo di plastica a causa del packaging utilizzato dalle aziende per la spedizione. Lo stesso effetto è del resto provocato dagli acquisti in modalità “da asporto” e da quelli alimentari direttamente a domicilio: anche in queste situazioni la plastica la fa spesso da padrona.

Il risultato appare preoccupante ed è stato raccolto in uno studio pubblicato di recente sulla rivista Scienze e intitolato “Accumulation of plastic waste during Covid-19”. Lo scenario rappresentato è preoccupante se si pensa che, giusto per fare un esempio, le dimensioni del mercato globale degli imballaggi in plastica tra il 2019 e la fine del 2021 crescerà del 5,5%. Una quantità di plastica difficile da assorbire, per il nostro pianeta.

A tutto ciò si aggiunge il fatto che la contrazione dei consumi e degli spostamenti conseguenti all’epidemia ha provocato un calo del prezzo del greggio per cui oggi costa meno produrre plastica vergine da risorse fossili piuttosto che utilizzare materiali plastici riciclati.

Ciò significa maggiori quantità da smaltire nelle discariche. Ma significa anche molta più plastica dispersa nell’ambiente, attraverso la combustione: si calcola che quasi il 75% della plastica utilizzata per l’emergenza Covid-19 finirà in questo modo, con costi economici devastanti. Secondo quanto calcolato dall’organizzazione internazionale “Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente” i danni provocati su pesca, navigazione e turismo saranno quantificabili in circa 40 miliardi di dollari l’anno.

Se non si riuscirà a invertire questo trend, si calcola che entro il 2050 la produzione di plastica sarà responsabile del 20% del consumo mondiale di combustibili fossili, con conseguenze drammatiche su ambiente e clima. Per questo è doveroso contenere per quanto possibile il consumo di plastica monouso, anche tenendo conto del fatto che molti studi hanno dimostrato che – anche in questi difficili momenti di pandemia – disinfettanti e detergenti di uso domestico quotidiano sono efficaci per disinfettare le superfici di oggetti e contenitori in plastica riutilizzabili.

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 19 (anno 6 n. 1) gennaio-febbraio 2021

Trenord: «La sostenibilità è nel nostro DNA»

In evidenzaTrenord: «La sostenibilità è nel nostro DNA»

«La nostra azienda – sottolinea Marco Piuri, Amministratore Delegato di Trenord – ha iniziato il 2020 con l’immissione di nuovi treni e l’ha concluso con l’acquisto di convogli a idrogeno. Un anno così complicato non ha frenato la storia sostenibile che abbiamo imboccato fin dalla nostra nascita, fatta di azioni concrete, non di annunci».

Quando si parla di trasporto ferroviario passeggeri in Lombardia, il pensiero corre subito a Trenord. Abbiamo incontrato l’Amministratore Delegato Marco Piuri, alla guida della società da settembre 2018 dopo una pluriennale esperienza nel mercato della mobilità a livello europeo.

Dottor Piuri, che cosa significa, dal punto di vista organizzativo e pratico, trasportare 214 milioni di persone ogni anno, percorrendo 42 milioni di chilometri che collegano oltre 420 stazioni?

«La Lombardia ha il doppio degli abitanti delle altre regioni popolose d’Italia e noi di Trenord gestiamo il 30% del trasporto regionale italiano su ferro. Per arrivare al numero di treni che muoviamo noi bisogna mettere insieme regioni del calibro di Veneto, Piemonte e Lazio. Questo è un primo dato che fa capire l’enorme domanda cui dobbiamo rispondere e lo sforzo in termini di offerta e di possibile risposta che mettiamo in campo tutti i giorni. L’altra cosa da tener presente, e che non sempre si riesce a spiegare ai cittadini, è che la ferrovia è un sistema che a sua volta è posto dentro un altro sistema più vasto, quello della mobilità. Questo comporta che la qualità del servizio ferroviario sia determinata in parte dal vettore ferroviario – per quanto riguarda la qualità dei treni e la capacità di gestire il trasporto e di fare la manutenzione – ma soprattutto lo sia in parte maggiore dal sistema infrastrutturale».

Quanto è importante, per voi, fare questa distinzione?

«Quando, in caso di ritardo dei treni, i viaggiatori si lamentano e dicono “mettete un treno in più”, “mettete due carrozze in più” non sanno che molto spesso il problema nasce dal sistema, non da chi ne gestisce solo la parte “finale”. Perché sui binari, in un certo orizzonte temporale, non può passare più di un certo numero di treni. Il sistema ferroviario lombardo ha vincoli molto forti, di cui bisogna tenere conto. Anzitutto le sue due stazioni principali di Milano, Centrale e Cadorna, sono “di testa”, quindi i treni entrano e devono uscire. Non sono passanti come ad esempio a Bologna, e questo per un sistema ferroviario è una complicazione enorme. Poi in Lombardia accanto al trasporto regionale c’è una marea di alta velocità, di servizi internazionali, di servizi merci che ovviamente occupano i binari e rendono tutto più difficile da gestire: se la rete ferroviaria italiana decide di far passare prima l’alta velocità e per questo tiene fermo un treno regionale, io gestore non posso decidere in autonomia se muovermi o meno. Infine bisogna tenere conto che più del 50% dell’infrastruttura ferroviaria lombarda è a binario unico. Per tutto questo possiamo dire che la qualità del sistema dipende da noi per meno del 50%. Noi possiamo, anzi dobbiamo, influire sul “disegno” del servizio, ma le modalità di circolazione le decide l’infrastruttura ferroviaria».

Tra i vostri obiettivi c’è quello che “sempre più gente, per i propri spostamenti, utilizzi il treno”?

«Secondo noi non è questo il problema, non vogliamo che sempre più gente usi il treno. Può sembrare paradossale, ma se crediamo in concetti come quello della sostenibilità, e noi ci crediamo molto, dobbiamo concludere che l’utilizzo del treno debba essere fatto solo quando serve l’effettivo utilizzo del treno. Mi spiego: la richiesta di mobilità deve trovare risposte differenti perché un conto è se una persona ha l’esigenza di spostarsi da Mantova a Milano – città tra cui c’è una certa distanza – e un conto è se deve muoversi in un raggio ristretto, diciamo inferiore ai 10 Km. Cito questa distanza perché abbiamo calcolato che in Lombardia il 75% degli spostamenti fatti riguarda un raggio non superiore ai 10 km. Noi pensiamo che gran parte di questi spostamenti “brevi” non dovrebbero essere fatti con il treno, che è un bestione che occupa grande spazio e che serve per portare mille persone, non 50. Per migliorare la circolazione regionale non serve dunque mettere in circolo nuovi treni, come spesso ci viene chiesto. E non è un problema economico, questo, è proprio il dire che a una domanda di mobilità fatta in maniera diversa bisogna rispondere con soluzioni differenti, utilizzando il sistema più adatto a ogni esigenza, per cui magari è meglio fare meno fermate, così il treno da Mantova a Milano è più veloce, e capire come si può organizzare in modo efficiente la mobilità di tutto il territorio che c’è attorno. Questo è il tema che si fa fatica a far capire perché si semplifica dicendo più ferro c’è, meglio è: no, la filosofia di base deve essere: il ferro dove serve e nel modo in cui serve».

Chi è il vostro “passeggero tipo”? L’impressione è che sia soprattutto un pendolare che si sposta tutti i giorni per ragioni di lavoro. È davvero così?

«Può sembrare strano, ma il 50% dei nostri passeggeri non è costituito da pendolari. Non sono le persone che si spostano regolarmente cinque giorni la settimana, per ragioni di lavoro, ma viaggiatori di altro tipo, occasionali, che si muovono magari per affari ma anche per il tempo libero o per motivi familiari… Una situazione acuita dall’avvento del Covid-19, che dal punto di vista dei trasporti ha portato a una riduzione della mobilità sistematica e a un aumento dell’altra. Ma io credo che quando tutto tornerà normale ci sarà un ritorno alle vecchie abitudini anche se con qualche cambiamento. A quel punto sarà interessante capire quale dovrà essere l’equilibrio da raggiungere tra sistemi di trasporto collettivi e individuali».

Nel vostro bilancio sociale, attraverso i risultati dell’analisi “True Value” parlate di 1,6 miliardi di euro restituiti al territorio sotto forma di esternalità sociali, economiche e ambientali. Ci può spiegare di cosa si tratta?

«Pensiamo si debba cercare di superare l’idea per cui il bilancio sociale sia una mera rendicontazione di fine anno. È un’altra cosa, che presuppone che ci sia un piano, degli obiettivi misurabili e che la componente della sostenibilità sia sempre più strutturalmente parte della rappresentazione e della misurazione di un’attività. In base a questo modo di pensare abbiamo deciso di adottare “True Value” che è una metodologia di KPMG che traduce in euro – che è un’unità di misura comprensibile a tutti – qual è il valore che viene generato da un’azienda come la nostra. Il miliardo e sei è, appunto, la traduzione in euro del valore che Trenord genera per la comunità. Se questo numero lo raffrontiamo al fatto che noi nel 2019 abbiamo generato un fatturato di 800 milioni di euro, possiamo dimostrare una volta di più che il bilancio civilistico legge la realtà solo parzialmente. Il miliardo e sei di cui parliamo la legge invece tutta e ci rivela che se da una parte noi riceviamo da Regione Lombardia circa 470 milioni di euro all’anno come corrispettivo per far funzionare il sistema di servizio pubblico, dall’altra ne restituiamo al terriotorio una cifra tre volte superiore».

Come viene generato questo miliardo e sei a favore del territorio?

«È una cifra che valuta solo gli elementi diretti legati alla nostra attività, ma che se allarghiamo anche a quelli indiretti – cioè a quelli generati in maniera indotta – raggiunge addirittura un valore di tre miliardi. Per calcolarla prendiamo in considerazione i consumi, i prodotti, quanto si riduce la congestione, quanto generiamo di CO2, quanta ne riduciamo la produzione perché portiamo persone sul treno, qual è il valore economico generato, insomma si prendono queste voci e alla fine tra quelle dirette quelle indirette si arriva a quel valore. E tra le voci pesate c’è anche l’impatto sociale che il nostro servizio collettivo produce sulla comunità, un valore enorme. Così come l’aspetto ambientale, destinato peraltro a crescere di valore grazie al rinnovo della flotta che stiamo operando, con treni più leggeri, che consumano e inquinano meno, riciclabili, a batteria, a idrogeno… Siamo la prima azienda di trasporto in Italia ad applicare questo metodo di valutazione dell’impatto. Un esercizio per noi molto importante, che ci permette di rapportarci con gli stakeholder e dire: “Noi siamo questa roba e valiamo così e per il territorio abbiamo questo valore”, ma ci serve molto anche sul nostro fronte interno perché, appunto, non è uno strumento di mera di rendicontazione, è un prezioso mezzo attraverso cui possiamo capire il valore di quello che generiamo e capire dove dobbiamo agire perché questo valore possa incrementarsi ulteriormente».

Per quanto riguarda gli SDGS dell’ONU, abbiamo notato che prestate molta attenzione, tra quelli che sono scontati per l’attività che svolgete, al numero 4, quello che vuole sia assicurata un’istruzione di qualità. Ci può spiegare questa vostra scelta?

«Una scelta che parte da questo presupposto: la nostra attività produce un forte impatto sociale sulle comunità e sul territorio e abbiamo la consapevolezza che uno dei problemi che ha il nostro Paese è il fatto di essere il più “vecchio” del mondo dopo il Giappone. Corriamo dunque il rischio dell’impoverimento delle generazioni più giovani. Per questo ci siamo detti: visto che quasi per natura abbiamo questa rilevanza sociale difendiamo, preserviamo e investiamo sui giovani, che rappresentano la possibilità che le nostre comunità possano continuare a esistere, a crescere e a svilupparsi. La nostra attenzione viene sviluppata in due direzioni. Prima di tutto con azioni di educazione alla sostenibilità e alla mobilità, così che possa essere comprensibile e interessante quello che facciamo e possano essere incentivati certi comportamenti virtuosi. E poi c’è la parte di formazione interna, legata alla nostra attività aziendale, visto che il settore lavorativo che ci riguarda richiede competenze tecniche molto forti. Per questo abbiamo deciso di lavorare anche con le scuole per fare in modo che i ragazzi non le abbandonino e che vengano supportati nel loro percorso di studi. Ci interessa dunque che i giovani guardino al tema della mobilità nella maniera più adeguata possibile, ma ci interessa anche avere un’interlocuzione con il mondo dell’educazione per formare le persone che ci servono in azienda. Ci interessano ragazzi dall’intelligenza sociale, aperta. Gente che sia curiosa e che abbia voglia di imparare, di essere formata».

Può aiutarci ad approfondire questa vostra collaborazione con il mondo della scuola?

«È un’attività che portiamo avanti grazie a collaborazioni con il Consorzio ELIS, che opera in ambito di formazione professionale superiore, e che si fonda sull’alternanza scuola-lavoro impostata in un certo modo, ma che parte anche dai più piccoli, con il coinvolgimento dei bambini attraverso giochi e quant’altro. Si sviluppa attraverso collaborazioni con il mondo dell’università, per cui siamo stati fra le aziende promotrici della laurea in Mobility Engineering che il Politecnico di Milano ha lanciato due anni fa. Diciamo quindi che l’intervento avviene a livelli diversi ma è fondato su un’unica idea: formare, contribuire all’educazione dei giovani. Non pensiamo al solo aspetto dell’istruzione, pensiamo a quello più vasto dell’educazione, per cui l’obiettivo e avere persone che siano consapevoli del mondo in cui vivono, che siano curiose, che abbiano voglia di “fare” le cose. Questo è il nostro impegno, che nasce dal fatto che siamo molto legati alle comunità locali, perché la ferrovia, entra nei paesi e spesso ne è un punto di riferimento irrinunciabile».

Il tema dell’innovazione tecnologica che incidenza ha sulle vostre scelte, anche sotto il profilo della sostenibilità? Come si può descrivere la vostra spinta all’innovazione?

«Se parliamo di innovazione sui mezzi di trasporto dobbiamo prima di tutto chiarire un concetto essenziale: chi fa l’innovazione sui treni sono i produttori degli stessi treni, non siamo noi. Noi possiamo indirizzare le scelte con nostre richieste o indicazioni, per esempio sottolineando che abbiamo bisogno di treni più leggeri ma anche con motori più potenti, o con tempi migliori di accelerazione e frenata, ecc. Ovvio che la nostra capacità deve essere quella di fare richieste che possano avere una risposta tecnica praticabile, ma in ogni caso il nostro può essere un intervento esclusivamente da stimolatori. Se parliamo di innovazione tecnologica entriamo ovviamente in modo deciso nei temi che sono legati alla salvaguardia dell’ambiente. Parliamo di treni che consumano meno, che diffondono meno elementi negativi nell’ambiente, pensiamo alla decarbonizzazione progressiva, alla sostituzione dei treni diesel con treni elettrici, alimentati con la batteria o a idrogeno. Il discorso dei treni a idrogeno rappresenta bene quale possa essere il nostro intervento di vettori ferroviari a livello di progettazione di mezzi all’avanguardia. Quando Alstom – l’azienda leader in Italia nella produzione di veicoli ferroviari – ha deciso di sviluppare gli studi su questo tipo di alimentazione ci ha coinvolti direttamente, ben sapendo che come “fruitori finali” siamo in gradi di valutare la validità dell’applicazione concreta di determinate scelte tecnologiche e quindi di offrire indicazioni pre- ziose sulle soluzioni da adottare. In quello che è stato un anno davvero complicato, bisogna sottolineare che Trenord ha cominciato il 2020 con l’immissione di nuovi treni e l’ha concluso con l’acquisto dei treni a idrogeno. Quindi diciamo che nonostante tutto la sostenibilità è rimasta nel nostro DNA, fa parte ormai di una storia che abbiamo imboccato fatta di azioni concrete, cose fatte, non annunci».

Dal punto di vista dell’innovazione digitale, invece, in che cosa si traduce il vostro impegno attuale?

«Da questo punto di vista ci stiamo muovendo in due direzioni che riteniamo essere particolarmente significative. La prima riguarda la domanda di mobilità: riteniamo che per essere sempre più vicini alle esigenze dei nostri viaggiatori sia fondamentale diventare capaci di leggere questa domanda. A questo fine stiamo sviluppando un progetto, in collaborazione con Vodafone, che ci consenta di leggere i flussi dei passeggeri – orari, percorsi, distanze, ecc. – e costruire un sistema, e quindi un servizio, sempre più efficace ed efficiente. La seconda è lo sviluppo dell’utilizzo, in generale dei big data che riusciamo a raccogliere attraverso la nostra App non tanto in chiave commerciale, ma in particolare dal punto di vista dell’informazione che può essere fornita ai passeggeri quando ne abbiano bisogno: per pianificare un loro viaggio, avere delle alternative sui percorsi, mettere in atto determinati comportamenti quando dovesse sorgere un problema nel corso del viaggio, ecc.».

Un’ultima domanda: tra le sfide future, qual è quella che vorreste vincere prima di tutte?

«Rispondo citando Piero Bassetti: “Ciò che comanda lo sviluppo sul territorio sono le funzioni, non sono i confini amministrativi”. Ecco, noi abbiamo un sistema che invece è retto sui confini amministrativi per cui si parla ancora di Provincia di Varese, di Milano, di Como, di Sondrio… Ma i confini territoriali amministrativi non c’entrano niente, nella gestione della vita sociale di tutti i giorni. A comandare sono le funzioni, l’università, gli ospedali, le grandi aziende, i centri commerciali, gli eventi, le entità, cioè, che muovono le persone che, per dirla sempre alla Bassetti, non si interessano dei confini amministrativi, giustamente. Per questo la prima nostra sfida, quando parliamo di mobilità, è di osservarla a partire dalle funzioni ed è quello che contiamo di fare con sempre maggiore convinzione».

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 19 (anno 6 n. 1) gennaio-febbraio 2021

Di città più vivibili e di ideologie

In evidenzaDi città più vivibili e di ideologie

Un mio amico un po’ di tempo fa, ridendo, mi ha detto: «Io l’automobile la uso soprattutto per tenermi il fantastico parcheggio che ho trovato a fatica sotto casa». Una battuta, certo, ma forse neanche troppo.

Una recente ricerca svolta prendendo spunto dalla realtà di varie grandi città del mondo ha rilevato che, in media, un’automobile trascorre il 95% del suo tempo ferma al lato di una strada, in un parcheggio o in un garage (per chi ha la fortuna di averlo).

Le nostre città sono piene di queste scatole di metallo e plastica – ferme o in movimento – che rendono sempre più brutte e invivibili le nostre vie e condizionano in modo negativo la qualità della nostra vita. I marciapiedi sono sempre più stretti e spesso sono invasi dalle auto in divieto di sosta. I pedoni, anche quelli meno fortunati come le mamme con le carrozzine, gli anziani, le persone con disabilità, sono costretti a zigzagare nel traffico, rischiando la vita ogni volta che devono andare da una parte all’altra di una strada.

Le automobili sono le vere padrone della nostra vita, soprattutto nelle città, e questo strapotere comincia a dare fastidio a molti.

Stuoli di urbanisti, amministratori e sindaci illuminati di città sparse in tutto il mondo stanno mettendo in atto azioni volte a ristabilire un equilibrio rotto da tempo, che forse l’emergenza Covid con il suo lungo e diffuso lockdown – almeno qualcosa di positivo l’ha fatto – ha riportato prepotentemente alla ribalta.

Da Bruxelles a Manchester, da Bogotà a Milano, da Parigi a Città del Messico, da Portland a Melbourne… a tutte le latitudini l’obiettivo dei nostri giorni è quello di promuovere forme di spostamento cittadino “alternative” che contribuiscano a disincentivare l’utilizzo di automobili private.

I modi per farlo sono molti, si parte dallo sviluppo dei mezzi pubblici e si arriva alla creazione di nuove piste ciclabili, passando attraverso la promozione di car sharing e di tutte le altre forme che sono basate su un utilizzo condiviso dei mezzi di trasporto.

Sono tutte scelte che vanno fatte coinvolgendo il mondo industriale – il comparto automobilistico è troppo “pesante” per liquidarlo sui due piedi, serve un’oculata politica di conversione, che permetta di non sacrificare milioni di posti di lavoro – e che devono essere condivise a livello politico.

Da questo secondo punto di vista, ahimè, in Italia siamo sempre speciali. La creazione di piste ciclabili, le zone a traffico limitato, la diminuzione dei parcheggi a vantaggio dei dehors dei locali pubblici – misura che sta trovando la sua massima espressione in questo periodo –, la ricerca di nuovi mezzi di spostamento come i monopattini, che occupano poco spazio e sono praticamente a impatto zero, sono stranamente considerate imposizioni di natura politico-ideologica che mirano a destabilizzare o rendere più complicata la vita dei privati cittadini.

Ma proviamo a immaginare le nostre vie cittadine senza auto, né in movimento (se non poche, lo stretto necessario), né tanto meno parcheggiate. File di alberi, aiuole, piste ciclabili, panchine, parchi giochi per bambini, aree in cui chiacchierare senza dover urlare, e senza correre il rischio di respirare tutte le schifezze espulse dai tubi di scappamento.

Sarebbero così destabilizzanti? Così penalizzanti sulla qualità della vita di noi tutti?

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 18 (anno 5 n. 5) ottobre 2020

Michele Perrino (Medtronic Italia): «Il lavoro di squadra è il miglior strumento per uscire dall’emergenza”

In evidenzaMichele Perrino (Medtronic Italia): «Il lavoro di squadra è il miglior strumento per uscire dall’emergenza”

«Nel corso dell’emergenza Covid-19 – dice Michele Perrino, Presidente e Amministratore Delegato di Medtronic Italia – abbiamo cercato di interpretare il ruolo di grande azienda non come entità che vuole dettare o indirizzare le regole, ma come realtà che vuole mettersi a disposizione con un ruolo inclusivo, di apertura. Perché pensiamo che le organizzazioni di successo siano quelle dove le persone condividono valori fondanti forti, e quindi si ritrovano e si riuniscono attorno a questi».

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Michele Perrino, Presidente e Amministratore Delegato di Medtronic Italia, ci racconta come l’azienda di tecnologie e soluzioni mediche più grande al mondo ha affrontato – e sta ancora affrontando – il periodo di emergenza dovuto alla pandemia da Covid-19.

Dottor Perrino, come state vivendo questo periodo di emergenza all’interno della vostra azienda?

«Fin dal mese di febbraio 2020 ci siamo posti tre obiettivi. Il primo è stato quello di salvaguardare la salute di dipendenti, partner e fornitori che lavorano con noi e per noi. Il secondo quello di continuare a garantire il servizio aziendale, la piena operatività aziendale. Il terzo quello di attivarsi per aiutare l’emergenza, offrendo quel contributo che una grande azienda, in una situazione particolare e difficile come questa, deve poter dare».

Come avete attuato l’obiettivo della protezione delle persone?

«Abbiamo agito facendo leva su due elementi fondamentali: la governance e la comunicazione. Dal punto di vista della governance abbiamo da subito attivato delle task-force nazionali e internazionali che ci hanno consentito di gestire la situazione in modo efficace. E abbiamo cercato di spiegare il tutto attraverso una comunicazione chiara, semplice, ma anche ferma e risoluta, come deve essere una comunicazione da emergenza. In questo momento di tragedia siamo riusciti a destare nelle persone che hanno a che fare con Medtronic, a tutti i livelli, un senso di appartenenza unico e speciale, permettendo ai principi fondanti della nostra missione aziendale di “venire fuori” con tutta la loro forza».

Avete dovuto affrontare problemi legati a contagi aziendali?

«L’impatto avuto sulle persone è stato fortunatamente minimo, se contiamo che su 2.500 persone, meno di 10 sono state riscontrate positive al Covid, senza alcuna conseguenza. Consideriamo inoltre che abbiamo circa 700 persone che, sul territorio, hanno continuato a visitare ospedali come e più di prima, entrando quindi in contatto anche con pazienti Covid-19, in terapia intensiva e rianimazione. Abbiamo cercato veramente di garantire a tutti quanti la massima tutela. Credo che su questo primo obiettivo le persone si siano sentite veramente parte di una famiglia che si è presa cura di loro».

Come avete operato, invece, sul secondo obiettivo, quello del mantenimento della piena operatività dell’azienda?

«Abbiamo deciso di non chiudere, anzi, di rilanciare e accelerare. Siamo l’azienda dei ventilatori e della gran parte del materiale utilizzato nei reparti di terapia intensiva e rianimazione. Siamo l’azienda che è inoltre presente in tante altre comorbilità legate al Covid: insufficienza renale, cardiovascolare e tanto altro. Quindi, per noi, il secondo importante obiettivo è stato quello di non fermarci e, alla pari di infermieri e medici, essere presenti lì dove c’era l’emergenza. Inoltre, per quanto riguarda gli uffici di Milano, che occupano circa 300 persone, siamo entrati subito in modalità remote working e questa è stata una bellissima scoperta, perché non immaginavamo che un’azienda così grande potesse essere gestita mantenendo la piena operatività completamente da remoto. A livello di plant produttivi invece – consideriamo che questi sono distribuiti tra Milano e Mirandola, vicino a Modena, in una zona che fin da subito è stata decretata “rossa” – il fatto che nessuno abbia mai nemmeno per un secondo pensato di non lavorare, o avere avuto paura di farlo, dice tanto del senso di appartenenza, ma soprattutto del senso di responsabilità con cui le persone lavorano in questa azienda».

Oltre a non avere chiuso, ci sta dicendo, avete accelerato la vostra produzione. In quale direzione?

«Per quanto riguarda l’emergenza Covid-19, in particolare, ci siamo trovati coinvolti con vari dispositivi da noi prodotti. I primi sono i ventilatori utilizzati in terapia intensiva per pazienti gravi, device che produciamo in Irlanda. Quando ci siamo resi conto che la nostra produzione era insufficiente rispetto alle richieste del momento – provenienti dall’Italia ma anche da molte altre parti del mondo – per prima cosa abbiamo aumentato la nostra produzione: siamo arrivati attorno ai 1.000 ventilatori al mese, quasi dieci volte quella che era la produzione abituale. In secondo luogo abbiamo stretto partnership con varie aziende, circa 15-20 di altri settori che hanno iniziato a produrre i nostri ventilatori. Per quanto riguarda i filtri e circuiti, prodotti a Mirandola, utilizzati nelle terapie intensive e nelle rianimazioni, abbiamo fin dall’inizio dell’emergenza incrementato la produzione di circa il 45%. Sottolineo questo aspetto perché ancora una volta legato ai nostri dipendenti: aumentare la produzione ha significato che, da febbraio e in piena zona rossa, le nostre persone hanno dovuto lavorare 7 giorni su 7, 24 ore su 24. Questo è un aspetto di grande rilevanza, perché se non fosse stato così, tali prodotti non sarebbero potuti essere forniti in Italia così come in nessun altro Paese del mondo».

Passiamo al terzo obiettivo: il fare qualcosa per aiutare ad affrontare l’emergenza. Come avete agito in questo ambito?

«Ci siamo subito resi conto che dovevamo metterci a disposizione del Paese – parlo dell’Italia ma questo poi è accaduto anche in altre nazioni – per cercare di aiutare al di là dei nostri servizi. L’abbiamo fatto in tantissimi modi. Quando abbiamo visto che pur aumentando le nostre produzioni non avremmo comunque potuto coprire la grande richiesta del momento, abbiamo pensato di fare la cosa più naturale, cioè rendere disponibile in modalità open source le specifiche di progettazione di un nostro ventilatore polmonare, così che altre aziende potessero farle proprie e iniziarne la produzione. Fino al 2024 questi diritti saranno aperti, senza nessuna compartecipazione agli utili da parte nostra. Abbiamo registrato 90mila download di queste specifiche nel mondo, e in Italia più di mille e ci risulta che circa 15-20 aziende stiano in una fase avanzata di valutazione di tale produzione. Ma ci siamo mossi anche in altre direzioni: nel momento di massima difficoltà a reperirli, abbiamo donato dispositivi di protezione individuale a ospedali che ne avevano un disperato bisogno. Abbiamo inoltre prestato volontariato alla Fiera di Milano: molti nostri tecnici e dipendenti hanno aiutato a installare i ventilatori nel nuovo ospedale. Oltre a questo, abbiamo contattato tante piccole e medie aziende, alcune di queste presenti nel distretto di Mirandola, dove siamo presenti da tempo sia con i nostri siti produttivi, sia come advisor del manifesto siglato tra il Tecnopolo e Fondazione MaverX, con l’obiettivo di promuovere iniziative nel campo della formazione e aiuto alle imprese. Insieme a loro ci siamo resi promotori di una call to action sul distretto a sostegno dell’emergenza nel nostro Paese, dove Medtronic ha messo a disposizione risorse, spazi, competenze, senza chiedere nulla in cambio».

Bello questo desiderio di mettere insieme le forze per creare un fronte comune contro l’emergenza…

«Abbiamo cercato di interpretare il ruolo di grande azienda non come entità che vuole dettare o indirizzare le regole, ma come realtà che vuole mettersi a disposizione con un ruolo inclusivo, di apertura. È questo il ruolo che Medtronic vuole giocare e che attraverso la nostra governance integrata stiamo cercando di intrepretare. Una scelta che porta a un valore incredibile all’interno, perché le organizzazioni di successo sono quelle dove le persone condividono valori fondanti forti e quindi si ritrovano e si riuniscono attorno a questi. Non siamo l’unico esempio, ci sono diverse realtà che stanno sempre più assumendo questo ruolo».

Proviamo a dare uno sguardo al futuro: quale potranno essere gli sviluppi della situazione anche dal punto di vista della vostra azienda?

«Come tante aziende anche noi abbiamo avuto un impatto finanziario negativo. Nel mondo, nel solo trimestre febbraio-marzo-aprile 2020, abbiamo avuto una perdita di fatturato pari a circa il 26%. Stimiamo di avere un impatto comunque negativo nei tre mesi successivi (l’intervista è stata fatta a luglio 2020, ndr), dopo di che prevediamo un ritorno graduale alla normalità. In generale due sono le cose che vorrei sottolineare. La prima è che come azienda abbiamo fatto la scelta di non ricorrere a nessuno strumento di sostegno esterno, come la cassa integrazione o ferie forzate, ecc. Non potevamo, in un momento così importante e con le persone così impegnate nell’emergenza, pensare a modi per risparmiare. La seconda è che ora in Italia, nonostante la coperta sia un po’ corta per tutti, è tempo di investire, di accelerare. Un’azienda come Medtronic deve cercare di contribuire alla ripartenza del Paese, ed è esattamente quello che stiamo facendo. L’Italia ha bisogno di crescita economica, e il nostro settore healthcare deve rappresentare un punto fermo, su cui far conto. Per questo tra pochi giorni annunceremo il progetto “Open Innovation Lab”, che ha l’obiettivo di sviluppare e promuovere conoscenza, talento e ingegno nel nostro Paese. Abbiamo individuato quattro hub di eccellenza nel medtech, due nel nord e due nel sud Italia, e stiamo lavorando alla loro promozione e sviluppo insieme a università e istituti di ricerca. Una volta avviati, li connetteremo creando il primo caso in Italia di distretto medtech diffuso. Questo significa investire, perché pensiamo che l’Italia e in particolare il medtech ne abbiano davvero bisogno. Siamo ottimisti, l’azienda ha in programma di investire in Italia oltre 18 milioni di euro nei prossimi dodici mesi, che si andranno a sommare ai 36 milioni di euro già impiegati negli ultimi tre anni».

MEDTRONIC E IL VOLONTARIATO AL TEMPO DEL COVID-19

Mentre la comunità globale continua ad affrontare una situazione senza precedenti, i dipendenti di Medtronic cercano sempre nuove soluzioni per sostenere la comunità in cui vivono. Da subito si sono attivati per contribuire a realizzare il Nuovo Ospedale Fiera Milano: in tutta sicurezza si sono messi a disposizione per predisporre i materiali necessari per l’allestimento delle nuove unità di terapia intensiva.
In questa situazione di emergenza hanno inoltre voluto far sentire sempre più forte il loro spirito e la loro vicinanza concreta ai pazienti e alle loro associazioni, ripensando e rimodulando la loro azione di volontariato, adattandola alle esigenze dettate da que- sto difficile periodo storico e operando in massima sicurezza sia per loro sia per le persone cui si rivolgono. Numerosi sono i progetti online o “da remoto” nati per sostenere chi è nel bisogno.
Ne è l’emblema il “Project 6”, ovvero il mese di giugno di ogni anno dedicato al volontariato, che è di fatto un kick-off per i progetti di volontariato che Medtronic sostiene durante tutto l’anno in tutto il mondo. Vi aderiscono decine di migliaia di dipendenti per testimoniare la “good citizenship”, l’impegno di Medtronic verso la comunità, sesto pilastro della Mission Aziendale.

In tutta Italia i volontari Medtronic si sono messi a disposizione per le persone con cardiopatie congenite di AICCA onlus cercando di regalare un sorriso o un momento spensierato leggendo favole per bambini, realizzando karaoke online, yoga online e tanto altro. Hanno dedicato il loro impegno sportivo ai malati oncologici di AIMAC o la loro creatività dipingendo magliette colorate per i pazienti di Medicinema Onlus. Hanno cercato di coniugare il loro impegno personale con le donazioni attraverso il Matching Grant Aziendale, dove Medtronic Foundation triplica, in questo periodo, la donazione dei singoli dipendenti. E questi sono solo alcuni esempi. «Quest’anno – sottolinea Elena Busetto, Country CSR & Philanthropy Lead in Medtronic Italia – si sono volute valorizzare anche le azioni di gentilezza dentro e fuori l’azienda, piccoli gesti quotidiani che in tempi di crisi contano più che mai e rendono “volontari” in ogni momento della giornata… basta volerlo. Il cambiamento per rendere il mondo un posto migliore e promuovere azioni di impatto sociale avviene prima di tutto con l’azione locale, ora più che mai».

IL SOSTEGNO DI MEDTRONIC AL PROGETTO OBECITY

ObeCity è un progetto di prevenzione e comunicazione integrata che ha un duplice obiettivo: avviare una svolta culturale riguardo al tema dell’obesità e informare la popolazione circa i gravi rischi che questa malattia comporta, promuovendo l’adozione di stili di vita corretti come il movimento fisico e l’alimentazione sana. «Medtronic si occupa da anni di terapie mediche per combattere l’obesità – sottolinea Elena Busetto, Country CSR & Philanthropy Lead in Medtronic Italia – e, essendo costantemente accanto alle persone che vi convivono quotidianamente, ha compreso quanto sia importante creare una corretta cultura su quello che non è un problema estetico ma una vera e propria malattia. Sostenere il progetto Obecity-Prevenire l’obesità in Italia (obecity.it), per Medronic è un impegno di responsabilità sociale, di bene comune che un’azienda deve garantire in un ambito come quello della salute pubblica, di accesso alle cure, di sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale, in particolare in questo periodo di emergenza».

Per creare consapevolezza e agire modificando i comportamenti errati quotidiani, il mondo digitale rappresenta oggi una chiave importante – e lo si è visto in questo periodo di emergenza per Covid19 – perché consente di essere capillari e di ridurre e abbattere alcune barriere importanti dal punto di vista sociale, come quelle dell’inclusione, quella finanziaria, generazionale e temporale. «Una persona obesa tende a isolarsi, a rimanere nella propria casa e a ridurre di conseguenza i rapporti umani entrando in un circuito comportamentale in cui è facile cadere nel vortice del cibo e della depressione – prosegue la CSR manager di Medtronic Italia –. Per questo anche un semplice smartphone su cui far viaggiare un’informazione corretta, chiara e scientifica può essere il veicolo che permetta a queste persone di dialogare con esperti in grado di aiutarle dal punto di vista psicologico, di opportunità per imparare corretti approcci alimentari, di incrementare anche il movimento, ecc.».

Uno smartphone oggi è presente in ogni casa, indipendentemente dal livello economico e dalla composizione del nucleo familiare, «e il digitale diventa fondamentale anche per abbattere le barriere economiche e generazionali, si sa che i giovani sono molto più connessi rispetto alle altre fasce di età. Ed è qui che ObeCity Digital Village, la fase del progetto che ha iniziato il suo percorso a giugno 2020, crea un ponte e una possibilità di scambio, condivisione e cultura».

Per quanto riguarda la barriera temporale, infine, l’approccio digitale di ObeCity garantisce flessibilità, dal momento che vi si può accedere in qualsiasi momento, senza limiti temporali. «Pensiamo che un progetto di questo tipo possa portare concretamente un contributo al raggiungimento degli obiettivi globali per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in particolare per il numero 3, dedicato alla salute e al benessere», conclude Elena Busetto.

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 17 (anno 5 n. 4) luglio 2020

Giuseppe Pasini (Feralpi Group): «Gli imprenditori hanno il dovere di rialzare la testa e ridare fiducia a questo Paese»

In evidenzaGiuseppe Pasini (Feralpi Group): «Gli imprenditori hanno il dovere di rialzare la testa e ridare fiducia a questo Paese»

Il gruppo siderurgico Feralpi, di cui oggi Giuseppe Pasini è Presidente, da sempre si distingue per la forte sensibilità alle tematiche legate alla sostenibilità. Un approccio che molto ha aiutato in questo momento di difficoltà, caratterizzato dall’emergenza per Covid-19. E che sarà la base della ripresa, che dovrà coinvolgere tutti, nessuno escluso.

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Feralpi Group occupa un ruolo di assoluto rilievo nella siderurgia europea, ma non ha perso le caratteristiche di azienda famigliare che da sempre rappresentano la sua forza. Responsabilità sociale e sostenibilità, da queste parti – la sede principale è a Lonato, in provincia di Brescia – sono concetti fondamentali, frutto di una visione che vede al centro le persone, qualsiasi ruolo esse ricoprano all’interno dell’azienda.

Una concezione che in questo momento di grande difficoltà dovuta alla diffusione del Covid-19, è stata la stella polare che ha guidato le scelte messe in campo, prima fra tutte quelle riguardanti la sicurezza dei lavoratori del Gruppo, 800 in Italia e 700 all’estero.

Ce lo facciamo raccontare da Giuseppe Pasini che lavora in azienda fin da quando era un ragazzo e l’ha aiutata a crescere nel tempo, diventandone prima Amministratore delegato e poi Presidente.

Dottor Pasini, come sta vivendo come cittadino, prima ancora che come imprenditore, la drammatica situazione causata dalla pandemia del Covid-19?

«Credo che tra qualche anno quello che ci ricorderemo di questa esperienza, a livello umano, saranno le immagini che hanno mostrato a tutti il dramma vissuto negli ospedali da centinaia di malati, lo sforzo sovrumano dei medici e di tutto il personale ospedaliero, la sofferenza e quasi l’incredulità dei famigliari. Le generazioni più giovani hanno avuto la fortuna di non vivere alcuna guerra, ma questo momento è un po’ come se lo sia stata, abbiamo vissuto una situazione in cui siamo stati messi a dura prova, anche a livello psicologico. Una situazione che mi ha fatto pensare che tante volte, presi da una marea di pensieri e dal nostro desiderio di ottenere continui successi nella vita e nel lavoro, pensiamo che la vita sia quella che ci siamo costruiti nel tempo, che viviamo tutti i giorni. Invece la vita è molto spesso questa qui, fatta di lotta per sopravvivere e a volte anche di sconfitte brucianti».

Quali sono state le sue prime reazioni legate all’attività delle aziende del suo Gruppo?

«Mi ricordo il fine settimana di fine febbraio in cui si cominciò a parlare di Lodi e dell’inizio dell’epidemia. La prima cosa che feci fu convocare una riunione per il lunedì mattina, in cui creare una task-force interna per gestire in modo immediato l’emergenza sanitaria. La nostra prima preoccupazione è stata quella di cercare di mettere al sicuro il nostro personale. Poi, ai primi di marzo, c’è stata la chiusura delle fabbriche. Credo, e l’ho detto più volte, che in quel momento di emergenza – parlo soprattutto per la Lombardia, e in particolare di Brescia e Bergamo che erano le due città più colpite insieme a Cremona – quella sia stata una decisione giusta, che non poteva essere rimandata. Fermare le fabbriche ha voluto dire bloccare la circolazione delle persone e quindi la diffusione dell’epidemia. Dal nostro punto di vista abbiamo messo in stand by tutti i nostri stabilimenti in Italia: su un totale di 820 dipendenti ne sono rimasti al lavoro solo un numero ristretto, cui è stato affidato il compito di mettere in sicurezza gli impianti».

Quali azioni avete messo in campo sotto l’aspetto sanitario e sociale per permettere una riapertura in sicurezza?

«La Fase 2, quella della riapertura, non è stata facile, perché si è trattato di fare rientrare le persone in azienda nel rispetto assoluto delle misure di sicurezza dettate dal Governo. Ma siamo riusciti a fare tutte le cose per bene: il rientro è stato graduale e senza intoppi, in base a un protocollo che abbiamo condiviso con le organizzazioni sindacali, con l’Università di Brescia, sotto la regia della Prefettura. Insieme ad altre quattro aziende bresciane, inoltre, siamo entrati in una sperimentazione promossa dall’Università, che prevede l’esecuzione di test sierologici e tamponi per i dipendenti di tutte le nostre aziende italiane, per cui si può dire che il loro stato di salute sia monitorato in tempo reale».

Per quanto riguarda la vostra fabbrica in Germania, come vi siete comportati?

«In Germania non ci siamo mai fermati perché lì, a differenza che in Italia, non c’è stato alcun decreto governativo di chiusura delle aziende. Abbiamo ugualmente applicato i protocolli di controllo sanitario che abbiamo predisposto in Italia, cioè: misurazione delle temperature, distanze, mascherine, guanti e tutto quanto necessario, ma l’azienda non l’abbiamo mai fermata. Del resto in Germania l’impatto è stato ben diverso da quello che abbiamo subito qui in Lombardia. Lì, inoltre, hanno una copertura ospedaliera che è tre volte la nostra e si sono avvalsi anche delle informazioni che provenivano dal nostro Paese, colpito prima del loro, per cui è facile capire perché siano riusciti a prepararsi meglio e fronteggiare il virus con un’efficienza superiore alla nostra».

Quali cambiamenti ha portato questa situazione nelle sue aziende e quali di questi, secondo lei, resteranno anche in futuro?

«L’impatto più evidente è quello provocato dallo smart working. In questo momento (maggio 2020, ndr) il 30% del personale che si occupa di parte amministrativa e commerciale lavora in remoto. Per poter arrivare a questi numeri abbiamo dovuto investire sull’organizzazione, sui collegamenti e sulla digitalizzazione dei documenti. Abbiamo inoltre creato un “Comitato di resilienza”, un organo interno composto da tutti i nostri top manager che si sta occupando della ripartenza, e quindi di ricontattare i clienti in Italia e all’estero, verificare la loro solvibilità, capire quali fornitori fanno ancora parte della nostra filiera, rifare i budget perché quelli previsti sono saltati, ripensare agli investimenti. Si riunisce una volta alla settimana per elaborare piani che riguardano non tanto il medio-lungo termine, ma piuttosto le previsioni dei prossimi mesi. Penso che questo sia un momento in cui si debba procedere così, anche pensando e impostando con attenzione il futuro immediato».

Vittorio Colao, il manager che è stato scelto dal premier Giuseppe Conte come guida della task force che ha l’incarico di far ripartire il Paese dall’emergenza, l’ha chiamata per coinvolgerla in una tavola di discussione. Può raccontarci com’è andata?

«Sono stato chiamato come uno degli attori del mondo siderurgico. Ero con altri colleghi imprenditori di altri settori e c’era tutta la squadra di Colao in ascolto. A ognuno di noi sono stati concessi 5 minuti per esporre le nostre idee e proporre suggerimenti. Colao ha precisato bene: “Voglio proposte concrete, che si possano attuare domani mattina. Non parlatemi di idee che richiedono tempi lunghi per essere adottate, io sono qui per portare al Governo progetti reali e fattibili, che riescano a far scattare la scintilla della crescita nell’immediato”. Mi ha fatto piacere che Feralpi sia stata invitata a questo tavolo».

Parliamo di sostenibilità: è un concetto che ha ancora il ritmo per poter camminare e fornire impulso o sotto sotto non ha più la capacità di essere vivo come lo era in tempi passati?

«Sono convinto che questo periodo ci abbia insegnato quanto sia importante perseguire la sostenibilità sociale. L’ho pensato quando ho detto ai miei collaboratori che avremmo dovuto fare tutto il possibile per mettere il nostro personale in massima sicurezza. Un impegno che doveva riguardare l’azienda, ma anche gli stessi dipendenti. Le persone che lavorano da noi, infatti, trascorrono 8 ore della loro giornata nelle nostre aziende, ma le altre 16 le vivono al di fuori di queste. Per questo abbiamo spiegato loro come devono imparare a convivere responsabilmente con il Covid in ogni momento della loro vita. Perché la questione è semplice: se il personale viene costantemente monitorato, ma poi, per fare un esempio, alcuni dipendenti tornano a casa sulla stessa automobile senza indossare le mascherine, tutto quello che è stato fatto di buono può essere rovinato. Per questo penso che anche l’educare le persone ad adottare nuovi comportamenti rientri nel concetto di responsabilità sociale di un’azienda. Quelle che la applicano da sempre sono convinto che avranno vantaggi rispetto a quelle che ancora oggi non hanno maturato un’esperienza di questo tipo. È un punto di forza enorme. Lo è al punto tale che mi viene da dire che questo momento, noi di Feralpi, non lo stiamo vivendo solo come un dramma, ma anche come un’occasione preziosa di cambiamento».

Se dovesse esprimere un suo pensiero sulla realtà economica italiana attuale e futura, che cosa direbbe?

«Credo che ognuno, oggi, debba fare qualcosa di più e noi imprenditori abbiamo il dovere di rialzare la testa, di ripartire dando fiducia ai nostri collaboratori, alle famiglie, al Paese intero. Non dobbiamo fare promesse che non potranno essere mantenute, ma dovremo dire che presto le cose torneranno a funzionare, che continueremo a investire e che le persone avranno la possibilità di tornare a una vita normale. Ecco perché ritengo che questo sia il momento in cui le critiche gratuite ai governanti debbano essere messe da parte. Noi imprenditori dobbiamo uscire dalla difficoltà, metterci la capacità, la volontà e l’entusiasmo che abbiamo sempre avuto. Se sapremo tornare a fare questo, la gente ci seguirà, perché un giorno possa pensare: “Beh, bisogna dire che la classe imprenditoriale italiana è stata all’altezza dei nostri padri, che 70 anni fa hanno saputo ricostruire il nostro Paese dalle distruzioni della guerra”».

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FERALPI E L’EMERGENZA COVID-19

Una task force non solo per l’emergenza

Salvaguardare la salute del personale interno e garantire al tempo stesso la continuità del lavoro. Sono stati questi i due obiettivi congiunti della Task Force nata internamente per sviluppare istruzioni, procedure, protocolli, modulistica, oltre alla pianificazione dell’attività di comunicazione verso tutti gli stakeholder.

Costituitasi il 24 febbraio 2020, ovvero in deciso anticipo rispetto alla definizione delle prime “zone rosse” dell’8 marzo, la Task Force è stata (ed è tutt’ora) il punto nevralgico di riferimento per tutte le società italiane del Gruppo Feralpi. Vi fanno parte lo staff dei medici competenti, la direzione HR, la direzione di stabilimento, l’RSPP e la CSR manager e relazioni esterne. Al loro fianco medici specialisti per il necessario supporto scientifico. Il focus della Task force non è stato centrato solo sulla salute, ma anche sul benessere psicologico.

Le attività sviluppate hanno avuto come destinatario ogni portatore di interesse entrato in contatto con l’azienda, in modo tale da prevenire ogni forma di possibile contagio da Covid-19, rivolgendosi quindi non solo ai dipendenti ma anche alle imprese esterne, ai clienti e ai fornitori.

L’attenzione, nonostante il rallentamento dell’epidemia registrato a livello nazionale, resta elevato e la Task Force rimarrà attiva ben oltre il periodo emergenziale per assicurare un costante monitoraggio della situazione e l’implementazione tempestiva di eventuali nuove misure nel caso di necessità.

Un protocollo sanitario sperimentale condiviso per lavorare in sicurezza, per una sorveglianza attiva, partecipe e responsabile

Si chiama Sced-Cov (Sorveglianza Clinico-Epidemiologica e Diagnostica per la ripresa dell’attività lavorativa in sicurezza in corso di pandemia da Sars- COV-2) ed è un progetto sperimentale nato a Brescia, sotto l’egida della Prefettura, da una collaborazione tra Associazione Industriale Bresciana, organizzazioni sindacali, Spedali Civili di Brescia e Università degli Studi di Brescia. Alla sperimentazione partecipano alcune imprese della provincia tra cui Feralpi. L’obiettivo principale è quello di contenere la potenziale diffusione del virus nei luoghi di lavoro anche grazie all’utilizzo di strumenti digitali divenuti un mezzo veloce e puntuale per il monitoraggio costante per tracciare – e poi analizzare – l’eventuale diffusione stessa del virus.

Per questo gli oltre 700 dipendenti delle aziende bresciane del Gruppo non solo sono stati sottoposti a test diagnostici (tampone oro-faringeo e test sierologici con prelievo ematico), ma sono stati coinvolti attivamente attraverso un monitoraggio volontario che durerà cinque mesi, al pari della sperimentazione. Il monitoraggio avviene grazie un’app dedicata e sviluppata appositamente affinché ogni dipendente possa informare in tempo reale l’eventuale insorgenza di sintomi o il contatto con persone senza adeguate misure di sicurezza in modo da allertare lo staff medico e attivare le misure previste nel minor tempo possibile.

Il contributo sociale al tempo del Covid-19

La Provincia di Brescia, così come la Lombardia in generale, è stata uno dei territori più colpiti dalla pandemia di Covid-19 in Italia. Un’emergenza nell’emergenza che ha richiesto una forte risposta anche da parte del mondo delle imprese, risposta che non ha tardato ad arrivare. Il Gruppo Feralpi, in linea con la propria strategia di sostenibilità che vede in uno dei temi proprio l’Inclusione e lo sviluppo territoriale, ha quindi deciso di contribuire al contrasto al Coronavirus sostenendo direttamente alcune organizzazioni. In particolare, il Gruppo Feralpi ha contribuito all’iniziativa #aiutiAMObrescia.

Promossa da Giornale di Brescia, Fondazione Comunità Bresciana e UBI Banca è stata un’azione di raccolta fondi a supporto del sistema sanitario bresciano impegnato nella lotta al Coronavirus (16,7 mln € al 29 maggio) che ha sottolineato non solo la reattività e generosità della risposta, ma anche la trasversalità degli attori che a titolo privato, dalle grandi, medie e piccole aziende fino al singolo cittadino, si sono dimostrati parte di una comunità coesa e determinata nel combattere l’epidemia.

Non solo: Feralpi ha inoltre sostenuto, attraverso un contributo economico, diverse Associazioni territoriali tra cui enti comunali in cui il Gruppo opera e associazioni di volontariato. Non è mancato anche un sostegno materiale attraverso la fornitura di DPI e materiali di consumo di difficile reperimento venendo incontro alle immediate necessità di diversi operatori locali impegnati nel contrasto al Covid-19.

#iopagoifornitori per la tenuta della catena di fornitura

Con l’emergenza dovuta alla diffusione del Covid-19 molte attività produttive sono state duramente colpite, mettendo a rischio la tenuta finanziaria di intere supply chain con possibili ricadute sociali che graverebbero su una situazione già difficile. La responsabilità economica, quindi, può essere misura anche nella volontà di essere parte attiva di una filiera solida impegnandosi a far fronte con regolarità ai pagamenti verso i fornitori. Per questo il Gruppo Feralpi ha aderito alla campagna #iopagoifornitori, sostenuta anche dall’Associazione Industriale Bresciana che ha lanciato una vera e propria Call to Action attraverso un Manifesto ufficiale sottoscritto volontariamente dalle aziende della provincia lombarda. L’iniziativa, che ha già raccolto centinaia di adesioni, si è estesa ben oltre i confini provinciali o regionali, pervadendo differenti filiere e comparti diffusi sul territorio nazionale. Aderendo al progetto, ci si impegna quindi a pagare i fornitori nei termini previsti dai contratti commerciali che l’azienda ha in essere con una finalità che supera lo stretto legame cliente-fornitore perché appartiene a una logica di sistema più strategica e poiché si cerca di sostenere quella liquidità indispensabile al sistema economico per rimanere attivo, soprattutto nel contesto delle PMI più esposto al rischio.

IL GRUPPO FERALPI

Il Gruppo Feralpi è tra i principali produttori siderurgici in Europa ed è specializzato nella produzione di acciai destinati sia all’edilizia sia ad applicazioni speciali. Dalla capogruppo Feralpi Siderurgica, fondata
nel 1968 a Lonato del Garda (Brescia), un percorso di crescita ha dato vita a un Gruppo internazionale, diversificato e verticalizzato. La missione che si propone Feralpi non è soltanto quella di produrre i migliori acciai, ma di farlo nel modo più sostenibile possibile, abbattendo consumi ed emissioni con le migliori tecnologie disponibili. Dal 2004 rendiconta le proprie performance economiche, sociali e ambientali, integrando nelle strategie di business gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

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IL GRUPPO IN NUMERI (DATI 2018)

PRODUZIONE DI ACCIAIO: 2,5 MILIONI DI TONNELLATE
PRODUZIONE DI LAMINATI: 2,3 MILIONI DI TONNELLATE
PRODUZIONE DI LAVORAZIONI A FREDDO E DERIVATI: 1 MILIONE DI TONNELLATE FATTURATO: 1,32 MILIARDI DI €
COMPONENTE ESTERA DEL FATTURATO: 62%
DIPENDENTI: OLTRE 1.500
INVESTIMENTI TECNICI: 185 MILIONI DI EURO (2015-2018)

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 16 (anno 5 n. 2) Maggio 2020

Hitachi Rail ed emergenza Covid-19, ecco come una multinazionale reagisce alla pandemia

In evidenzaHitachi Rail ed emergenza Covid-19, ecco come una multinazionale reagisce alla pandemia

Le misure adottate per combattere l’emergenza Covid-19 e l’andamento del business sono così intrecciate che difficilmente si possono scindere, come ci racconta l’ing. Ulderigo Zona, direttore Hitachi Rail Group per il dipartimento Safety, Health, Enviroment and Quality, cui fa capo anche la funzione Corporate Social Responsability and Sustainability del gruppo.

L’emergenza anti Covid-19 ha messo a dura prova la capacità organizzativa di tutte le realtà che costituiscono la comunità umana. Lo ha fatto a livello di interi Paesi, e le cronache dei giornali e dei telegiornali sono piene di notizie che riguardano le azioni messe in campo dai singoli governi e le conseguenze più o meno efficienti per quanto riguarda il contenimento della diffusione del contagio, ma lo ha fatto anche a livello di singole realtà, come lo sono i nuclei famigliari, le comunità territoriali e le aziende.

Per quanto riguarda queste ultime, non tutte hanno reagito allo stesso modo e non tutte hanno ottenuto gli stessi risultati. Ci interessa scoprire come un momento così particolare e unico sia stato affrontato da una multinazionale presente in tutto il mondo come Hitachi Rail. Ne parliamo con l’ing. Ulderigo Zona, direttore per Hitachi Rail Group del dipartimento Safety, Health, Enviroment and Quality, cui è stato affidato l’incarico di guidare tecnicamente la task force centrale, fortemente voluta da Andrew Barr, CEO Hitachi Rail Group, e che è stata presa come riferimento per le 13 task force locali sparse nel mondo.

Ing. Zona, come avete reagito, a livello aziendale, all’attacco del Covid-19? Quali sono stati i vostri punti di forza nell’impostazione delle azioni che hanno contraddistinto la vostra gestione dell’emergenza?

«La nostra reazione è stata, si può dire, immediata: fin dai primi giorni abbiamo creato una task force che ha ragionato in maniera globale, ma raccogliendo i suggerimenti che provenivano dalle varie aree geografiche, assicurando così il rispetto delle esigenze normative e sanitarie locali. Il fatto di essere un’azienda globale ci ha di sicuro agevolato. Abbiamo uffici anche a Pechino e siamo presenti in tutti e cinque i continenti, la possibilità di poter ricevere informazioni da ogni parte del mondo è stata un punto di forza determinante. A questo dobbiamo aggiungere una capacità di integrazione che non ha riguardato solo i nostri dipartimenti e la gestione delle nostre risorse umane, ma anche, e questo ci ha fatto un enorme piacere, i sindacati, che ci hanno supportati nelle nostre scelte con grande senso di responsabilità e spirito di collaborazione».

La vostra è un’azienda davvero globale. Come vi siete posti nei confronti delle varie legislazioni che si sono via via adattate alla situazione di emergenza?

«Appena abbiamo capito che si trattava di un’emergenza di tipo sanitario, abbiamo costituito un comitato medico-scientifico composto da tutte le expertises presenti in Italia, utilizzate dall’azienda in ogni parte del mondo. Il coordinamento dei medici italiani, in contatto continuo con i colleghi francesi, giapponesi e americani ci ha permesso di raccogliere indicazioni preziose nella lotta al virus. E ci ha consentito di partire subito con azioni concrete di protezione e, soprattutto, di prevenzione, anche anticipando gli indirizzi poi definiti a livello governativo nei diversi Paesi. La prima misura che abbiamo messo in atto è stata quella che riguarda le distanze sociali, basandoci sulle indicazioni dell’Istituto Superiore della Sanità italiano e adattandolo in seguito alle legislazioni dei singoli Paesi. Le leggi locali sono state per noi ovviamente fondamentali e ci siamo attenuti a quelle, ma nelle vacatio delle leggi abbiamo scelto nostre linee guida e le abbiamo portate avanti».

Quali sono stati i vostri ambiti di intervento? Quali le misure principali?

«Come ho detto, il nostro impegno è stato soprattutto mirato alla prevenzione, sotto vari aspetti. Anzitutto, abbiamo capito che non potevamo continuare a viaggiare per il mondo come avevamo fatto fino a inizio 2019. Abbiamo, quindi, cominciato fermando le trasferte intercontinentali, per poi chiudere sempre più le maglie anche a livello locale, ancor prima che fosse imposto dalla legge. Ogni Paese ha continuato a lavorare nel rispetto del distanziamento sociale e senza scambi di persone tra le varie sedi, se non strettamente necessari per la gestione del business. Abbiamo, così, garantito in ogni momento la continuità dei servizi e il rispetto dei nostri impegni verso i clienti e tutti gli stakeholders.

Siamo una società che fornisce sistemi di trasporto e, pur nelle limitazioni imposte dalle singole disposizioni governative locali, dobbiamo garantire la manutenzione dei treni e delle infrastrutture attraverso la presenza di nostro personale nei vari siti in cui occorre un nostro intervento. Siamo presenti sulle linee, nei posti di controllo e nei depositi, in assistenza al cliente, per fare gestione e manutenzione del servizio, dei veicoli e dei sistemi. Nel garantire la continuità di questi servizi dei nostri clienti, del nostro lavoro, ma ancor più per rispondere alla crescente domanda di mobilità sostenibile, abbiamo subito concentrato la nostra attenzione sulla salute e sicurezza delle persone.

Da questa necessità è nata l’esigenza di fornirci in tempi brevi dei dispositivi di protezione individuale idonei allo svolgimento delle varie attività. Il fatto di essere un’azienda globale ci ha permesso di leggere in modo efficace quelli che sarebbero stati i flussi di diffusione del virus, per cui abbiamo provveduto a fornire in tempi utili le varie sedi di mascherine e altri dispositivi necessari. In pratica, abbiamo gestito i picchi trasferendo le nostre scorte di dispositivi da un Paese all’altro, a seconda delle necessità.

Abbiamo chiesto anche aiuto alla tecnologia e ci siamo dotati di speciali caschi che, grazie a termocamere montate all’interno, sono in grado di misurare la temperatura delle persone e inviare l’informazione sul visore dell’operatore che controlla gli accessi a uffici e fabbriche. Ora gli stessi caschi vengono utilizzati anche a Fiumicino. Noi siamo riusciti ad averli in anteprima grazie al nostro network che ci aveva informato del loro impiego già in Cina. Uno strumento che, insieme a tutte le aree di sosta dei trasportatori con servizi igienici e di sanificazione loro dedicati, ci ha permesso di gestire e tenere aperti i magazzini e ricevere le merci senza che vi fossero contatti a rischio tra le persone.

Dal punto di vista del coniugare l’aspetto produttivo all’aspetto sociale, Hitachi Rail sta analizzando un progetto di autoproduzione di mascherine. «L’abbiamo fatto per due motivi – spiega l’ing. Zona –. Innanzitutto, non sappiamo per quanto tempo durerà questa situazione di emergenza. Inoltre, non sappiamo se un domani ci troveremo ad affrontare una simile situazione causata da un altro virus. L’idea di produrre in house le mascherine ci piace anche dal punto di vista sociale, perché in un eventuale momento di bisogno potremmo decidere di produrne per soggetti terzi che dovessero trovarsi in difficoltà, aiutando le comunità in cui operiamo.

Per restare all’utilizzo della tecnologia, inoltre, abbiamo attivato la digitalizzazione di tutti i documenti di trasporto, un’operazione che produrrà i suoi effetti positivi anche in futuro e che ci darà una mano verso un cambiamento che prima o poi avremmo comunque dovuto affrontare».

Dal punto di vista degli spazi lavorativi, quali cambiamenti avete predisposto?

«Abbiamo speso quasi due settimane per reimpostare l’azienda, basandoci su quella che riteniamo essere la prima barriera alla diffusione del virus, cioè la distanza sociale. Abbiamo ridisegnato i layout produttivi, identificato delle aree di crisi, impostato le lavorazioni su turni complementari e, per quanto riguarda gli uffici, abbiamo ampliato lo smart working, un processo che avevamo già avviato e impostato in epoca pre-Covid e che è stato accelerato da questa situazione. Siamo semplicemente passati da uno smart working di un giorno a settimana a uno smart working al cento per cento a casa, durante il periodo di picco epidemico, garantendo comunque l’avanzamento dei lavori, senza mai fermare definitivamente le attività progettuali e i processi produttivi. Un’operazione che ha richiesto in tempi rapidi un rafforzamento delle nostre strutture informatiche per consentire a tutti di lavorare da remoto continuando a utilizzare il network aziendale».

Avete anche fornito l’attrezzatura necessaria a chi ha lavorato da casa?

«Sì. Abbiamo fornito ai dipendenti che ne erano ancora sprovvisti i portatili e il materiale informatico necessario all’attività da svolgere. Pensiamo, ad esempio, ai disegnatori dei motori e dei veicoli, che per lavorare hanno bisogno di grandi schermi e di postazioni di lavoro particolari. Ci siamo dovuti adattare e abbiamo velocizzato i processi, così da poter mantenere la continuità del lavoro nel rispetto della sicurezza. Il che ha comportato una leggera perdita di produttività, ma questo era stato ampiamente previsto».

Come hanno reagito a queste nuove disposizioni relative allo smart working i dipendenti del Gruppo?

«Devo dire che c’è stato un ottimo feeling da entrambe le parti. Dal punto di vista dell’azienda abbiamo avuto manager capaci di gestire la situazione contingente e i processi da remoto, consentendoci, tra l’altro, di identificare ulteriori spunti utili per la definizione delle future esigenze e capacità di lavoro da remoto. Dal punto di vista dei dipendenti, c’è stata un’ottima risposta al lavoro a distanza in situazioni personali e familiari vincolate dalle limitazioni di mobilità. È chiaro che, da questo punto, l’azienda del “dopo Covid” sarà molto diversa da quella di prima della pandemia: questa, infatti, rappresenta un grande spartiacque che, alla pari di altri avvenimenti che hanno segnato la nostra storia, il più recente l’11 settembre, ha inciso e inciderà sensibilmente sulla nostra vita. Lo vediamo, del resto, nei Paesi asiatici, più esperti di noi nel gestire epidemie e malattie infettive. Se vai per lavoro a Tokyo, Taipei, Hong Kong, scopri che sottoporti al termoscanner in aeroporto è ormai un requisito essenziale per poter entrare nel Paese. Ecco, questa è una misura che ritengo verrà adottata abitualmente anche in occidente».

Fino a quale punto le aziende potranno spingersi a prevedere la diffusione dello smart working?

«Premesso che mi aspetto che il 100% della presenza in azienda non esisterà più, è difficile dire in questo momento quale sarà per il nostro gruppo la percentuale futura di lavoro da remoto. Siamo solo sicuri che non sarà né lo zero per cento, né il cento per cento. La percentuale giusta deriva da una serie di fattori, primo fra tutti quello che riguarda le infrastrutture. Occorre anzitutto abbracciare ancora di più la digitalizzazione, ovvero spostare a livello digitale quello che ancora oggi non è possibile fare online. Non si potranno sostituire alcune attività e non saranno remotizzabili, ma si può lavorare sulla cultura delle persone, tenendo anche conto del fatto che uno smart working forzato o troppo diffuso può produrre rischi psicologici nelle persone, che possono sentirsi isolate dall’azienda o persino isolate dal mondo. Non c’è solo lo smart working, ma anche nuove soluzioni di lavoro flessibile e agile, che consentono e rispettano comunque la relazione personale diretta. Su questi aspetti siamo particolarmente attenti, tanto che abbiamo deciso di pubblicare una serie di booklet per spiegare bene come affrontare questa nuova modalità operativa. Per essere più vicini alle persone li abbiamo tradotti in cinque lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e giapponese), così che tutti i dipendenti siano in grado di recepire suggerimenti legati sia agli aspetti lavorativi sia alla vita di tutti i giorni, preziosi non solo per loro, ma anche per le loro famiglie».

Lo smart working è importante anche sotto il profilo del rispetto ambientale…

«Certo, e questo è un altro punto importante. Oggi le regole antivirus come sappiamo stanno condizionando molto il mondo dei trasporti. Questo significa che se non sappiamo gestire bene l’equilibrio tra il lavoro da casa e il resto, tutti tenderanno a spostarsi con i mezzi propri producendo tonnellate di carbonio e di biossido di carbonio. Tra gli aspetti positivi di Covid c’è stato quello di farci riscoprire i mari limpidi e la bellezza della natura. Abbiamo visto le foto dei satelliti, che ci hanno mostrato le diramazioni di concentrazioni di pulviscolo o di particolato. Dall’alto si è finalmente rivista la Cina, che prima era ricoperta da una massa più o meno marroncina… Il mondo dei trasporti è in continua evoluzione in risposta alle esigenze sociali e noi che operiamo in questo settore dobbiamo essere pronti a raccogliere la sfida, che per noi significa ricoprire il ruolo di acelerator nell’utilizzo della tecnologia digitale al servizio dei sistemi di trasporto e nell’innovazione sociale. Penso ad esempio a stazioni intelligenti, capaci di individuare il flusso dei passeggeri e di fare accedere ai treni solo un numero stabilito, quello che permette di evitare gli assembramenti».

Per quanto riguarda le decisioni relative all’emergenza Covid-19 prese dal Gruppo Hitachi, l’Italia è al centro del percorso intrapreso. Quali sono le motivazioni che giustificano questo ruolo di rilievo?

«L’Italia, che in questa vicenda è al centro dell’attenzione di tutti i media, rappresenta per Hitachi un’area produttiva e di presenza del personale molto importante. In Italia abbiamo tre stabilimenti produttivi di veicoli a Pistoia, Napoli e Reggio Calabria. Abbiamo lo stabilimento produttivo di elettronica di Tito (Potenza) e tre sedi operative. Il numero dei dipendenti è, di conseguenza, particolarmente concentrato in Italia. Per questo il nostro Paese è stato scelto per essere la culla di questo percorso. Da oltre 24 anni mi occupo di gestione della sicurezza, in base alla mia esperienza credo sia importante legare le attività di sicurezza a quelle del business: le attività promosse nel campo della sicurezza sono di successo solo quando ideate insieme al business, altrimenti rischiano di restare delle belle idee che non si concretizzano».

Avere capacità di adattamento immaginiamo voglia dire anche riuscire, come abbiamo visto, ad adattarsi alle diverse legislazioni presenti nei vari Paesi in cui è presente il Gruppo Hitachi. È un aspetto che vi ha creato problemi di azione?

«Abbiamo dovuto relazionarci con situazioni molto diverse tra loro: in Cina c’è stato un lockdown immediato e fortissimo, in Italia ci siamo avvicinati con gradualità, in Svezia invece il lockdown non è mai esistito. Per questo, ad esempio, spiegare ai nostri colleghi svedesi che dovevano indossare la mascherina non è stato facile, perché la loro legislazione consentiva di circolare liberamente, solo mantenendo le distanze. Stessa cosa in UK, dove inizialmente non si erano presi provvedimenti e si era parlato di immunità di gregge, solo in un secondo momento è stato cambiato l’approccio. La nostra arma vincente è stata proprio la capacità di avere una task force centrale capace di fornire linee guida generali e di adattarle via via alle legislazioni dei vari Paesi».

Una particolare attenzione l’avete rivolta ai territori che ospitano le varie aziende del vostro Gruppo. Ce ne vuole parlare?

«In Italia abbiamo un grande indotto, molte aziende ci guardano e fanno riferimento a quello che facciamo e tra le nostre missioni sociali c’è anche quella di far crescere i territori. La scelta di intraprendere, come Gruppo, azioni di sostegno per ospedali o per realtà che operano in campo socio-sanitario è andata proprio in questa direzione. Al di fuori dell’emergenza, comunque, Hitachi da sempre adatta la sua linea produttiva alle esigenze del mercato e dei territori. Uno dei forum che organizziamo è proprio quello della Social Innovation, in cui ci occupiamo di tutto ciò che può essere innovazione e possa avere un impatto significativo nel sociale. Questo esempio del Covid ci dà la possibilità anche di analizzare quello che abbiamo fatto e cercare di capire come potremmo agire in maniera diversa, in maniera più efficace, perché io parto dal presupposto che tutto è fatto bene ma tutto è perfettibile. Non esistono situazioni di arrivo ma solo situazioni di partenza».

La ripresa economica sarà lenta e difficile. Come prevede possa essere il nostro futuro immediato?

«Dal punto di vista economico, penso che sarà una ripartenza difficile, in cui tanti equilibri si modificheranno. Abbiamo visto che il modello basato sulla finanza non regge più, e che bisognerà trovarne uno in grado di bilanciare le esigenze della finanza e con quelle sociali. La crisi del modello sanitario è un chiaro esempio di come nel campo della sanità si debba trovare un nuovo equilibrio tra privato e pubblico che garantisca un servizio sociale più ampio ed efficiente. E penso si dovrà anche intervenire sull’organizzazione del mondo del lavoro a livello globale. L’esempio di questi giorni è chiaro: con la chiusura della Cina si è bloccato il mondo. Pensiamo alle mascherine e a come ci siamo accorti in piena emergenza che gli unici a produrle, in tutto il mondo, erano appunto i cinesi. In un mondo del lavoro sempre più internazionale e fatto di vasi comunicanti dobbiamo sempre essere sicuri che questi vasi siano in equilibrio e non ci siano scompensi. Perché se poi rompi uno dei vasi, l’acqua nell’altro non ci arriverà mai».

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SOCIAL INNOVATION E COVID-19, QUAL È LA GIUSTA DIREZIONE?

Il business della Social Innovation di Hitachi Rail si pone da sempre l’obiettivo di creare innovazione tecnologica per migliorare la qualità della vita delle persone e raggiungere una società sostenibile, contribuendo a risolvere le questioni sociali e ambientali globali e a raggiungere gli SDGs fissati dall’ONU per il 2030.

L’emergenza Covid-19, per certi versi, può essere vista come il “punto zero” di un nuovo modo di impostare le azioni future. Sarà così anche dal punto di vista della sostenibilità? «Possiamo fare molto in questa direzione. Una delle task force che stiamo lanciando è finalizzata allo sviluppo di una mobilità sempre più integrata e sistemica per tutte le esigenze di trasporto legate all’azienda – sottolinea l’ing. Zona – . Parliamo di un progetto di mobilità che comprende l’utilizzo dei treni, del car sharing, delle auto personali e che, quindi, avrà anche il compito di proporre l’utilizzo di auto ibride e soluzioni sempre più sostenibili».

Un settore strettamente legato all’emergenza anticoronavirus è quello della produzione e dello smaltimento dei dispositivi personali di sicurezza. «Vogliamo avere un piano preciso ed efficiente che riguardi la gestione corretta dei rifiuti, perché oggi il nostro Gruppo, tra Europa e Medio Oriente, consuma circa 230mila mascherine chirurgiche e circa 110mila mascherine FP2 ogni mese. E possiamo immaginare quanti litri di gel utilizziamo».

L’intenzione è di non fermarsi qui: «A livello di gruppo, Hitachi ha lanciato il progetto “Make a Difference – Challenge to COVID-19” che ha l’obiettivo di raccogliere idee da tutto il mondo per sviluppare soluzioni utili ad affrontare la situazione attuale, adottabili da qualsiasi azienda o comunità ovunque. Siamo sicuri che da qui usciranno progetti che contribuiranno a migliorare ancor più la nostra società».

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ULDERIGO ZONA

Nato nel 1963. Laureato in Ingegneria Meccanica presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Da aprile 2020, è direttore Hitachi Rail Group per il dipartimento Safety, Health, Enviroment and Quality, a cui fa parte anche la funzione Corporate Sociali Responsability and Sustainabili-ty del gruppo.

Nell’ambito di Hitachi Rail STS Spa è stato responsabile globale per la Supply Chain & Construction Unit mantenendo la responsabilità in ambito HSE, Facility Managemement & Physical Security Unit.

Dal 2014 è stato Senior Vice President del dipartimento HSE & Facility Management essendo anche a capo delle attività di Supply Chain Management, Construction & Maintenance. Ha coordinato la realizzazione e lo Start-Up delle Metropolitane driverless in Italia (Milano Linea 5, Brescia e Roma Linea C), e della prima Metropolitana di Riyadh, in Arabia Saudita. In Australia ha cooperato per la creazione della struttura operativa di Construction & Commissioning per la realizzazione del primo sistema driverless merci.

Dal 2009 in Ansaldo STS spa è Vice President di Construction & Commissioning della Divisione Transportation oltre a Direttore Tecnico della società.

Dal 2001 in Ansaldo STS Trasporti Sistemi Ferroviari s.p.a. è Responsabile della Direzione Costruzioni coordinando tutte le attività di Logistica, Costruzione e Messa in Servizio dei sistemi di Trasporto Ferroviario e Metropolitane. Nello stesso periodo assume la responsabilità del presidio gestionale e sviluppo commerciale dei business Metro Milano e Alta Velocità Alimentazione. In Ansaldo Trasporti Sistemi Ferroviari viene nominato Direttore Tecnico e assume l’incarico di Datore di Lavoro.

Dal 1987 ha lavorato in Ansaldo STS Trasporti spa prima nella Divisione Segnalamento ricoprendo vari ruoli nell’ambito delle Costruzioni e della Fabbrica e poi nella Divisione Sistemi come Responsabile della Realizzazione.

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 16 (anno 5 n. 2) Maggio 2020

Janssen: «La nostra missione è creare un futuro in cui le malattie siano un ricordo del passato»

In evidenzaJanssen: «La nostra missione è creare un futuro in cui le malattie siano un ricordo del passato»

Come può un’azienda farmaceutica di livello mondiale osservare le prassi che conducono all’applicazione dei valori della sostenibilità? Lo può fare in molti modi, anche attraverso la musica, come ci spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente e AD di Janssen Italia nonché presidente di Farmindustria.

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Janssen, azienda farmaceutica belga fondata nel 1953 e nel 1961 acquistata dalla statunitense Johnson & Johnson, basa la sua identità sul riconoscimento e la valorizzazione della centralità delle persone.

Da sempre, infatti, le persone – e non “i pazienti”, come in Janssen tengono a sottolineare – sono poste in cima alla scala dei valori espressi nel Credo aziendale e sono al centro delle azioni eseguite quotidianamente, nella convinzione che chi si impegna per la salute della collettività non può trascurare le dinamiche sociali del mondo circostante.

Così la pensa Massimo Scaccabarozzi, Presidente e AD di Janssen Italia: «Noi di Janssen siamo persone comuni che ogni giorno sono animate dalla volontà di migliorare la salute delle persone, ricercando e sviluppando con passione soluzioni terapeutiche innovative che si traducano in tempo, vita e speranza. La nostra missione è quella di creare un futuro in cui le malattie siano un ricordo del passato».

Ma non solo, l’attività di Janssen si spinge anche all’ideazione e al supporto di campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica nelle aree terapeutiche in cui l’azienda è impegnata (vedi sotto, ndr). Particolarmente intensa è, inoltre, l’attenzione al territorio, attraverso iniziative di sostegno di varia natura. «Perché lo facciamo? Perché pensiamo che ci sia sempre qualcosa da restituire, soprattutto al territorio e alla comunità che ci ospitano – sottolinea Scaccabarozzi, che è anche Presidente di Farmindustria –. Non lo facciamo per un ritorno di immagine, il nostro non è marketing sociale, questo non ci interessa. Pensiamo si debbano portare avanti iniziative dall’alto valore sociale senza aver particolari interessi, a meno che questi non coincidano con quelli dell’applicazione di una fattiva social responsibility».

Il sostegno alla parità di genere

Janssen sostiene la parità di genere e la leadership femminile. Per questo è tra i soci fondatori di Valore D, l’Associazione di aziende creata nel 2009 per sostenere donne lavoratrici e promuoverne il talento fornendo gli strumenti e le conoscenze necessarie alla loro crescita professionale. Le attività si concentrano su cinque aree di lavoro: Mentorship, Skill Building, Work-Life Balance, Role Model e Social Innovation che dall’esperienza degli associati e dagli studi sul settore risultano fondamentali per lo sviluppo del talento femminile. Attualmente la metà del Board di Janssen è composto da donne e circa il 54% della popolazione aziendale totale è al femminile.

«Pensiamo che il valore delle persone in azienda non dipenda dal genere, ma dalla loro unicità che consente a ciascuno di portare nel proprio lavoro qualcosa di suo. Preferiamo persone che abbiano un pensiero libero e innovativo, perché solo così continueremo a essere pionieri in tutto ciò che facciamo, esplorando terreni nuovi, diversi da quelli usuali. La diversità, intesa come unicità, per noi di Janssen è fondamentale».

Il “Credo”, la carta valoriale

I valori di Janssen sono scritti nero su bianco. Sono contenuti nel Credo, la bussola valoriale che è alla base dell’azienda. «Se veniste presso la nostra sede, trovereste sulle pareti un grande pannello con le firme di tutti i collaboratori Janssen, che con questo gesto hanno sottoscritto il Credo dell’azienda. La stessa cosa nel mio ufficio in Direzione Generale, dove le firme sono sette, quelle dei componenti del Comitato Esecutivo. Ogni anno, tra luglio e agosto, a livello mondiale tutti i 180 mila collaboratori di J&J partecipano alla “Credo Survey”, un questionario anonimo con domande sul rispetto dei nostri valori aziendali e su altri aspetti come work-life balance, diversità e inclusione, retribuzioni. Con soddisfazione, devo dire che in Italia raggiungiamo sempre il nostro obiettivo di avere un tasso di risposta non inferiore al 95%. Una volta raccolte tutte le risposte, i risultati vengono trasmessi ai membri del Comitato esecutivo che provvedono a predisporre piani di azione basati sugli indicatori sorti. C’è da sottolineare che l’osservanza dei valori del Credo sono non solo irrinunciabili per tutti i dipendenti, ma rappresentano anche un criterio di scelta per i collaboratori esterni, dai fornitori ai distributori, che vengono selezionati non solo per le loro caratteristiche di qualità, ma anche perché dimostrano nel loro agire quotidiano di rispondere ai valori ritenuti fondamentali dall’azienda.

La JC Band

Tra le tante iniziative messe in campo dall’azienda dal punto di vista della raccolta fondi per situazioni degne di essere sostenute, spicca per originalità la costituzione della JC Band, gruppo rock costituito da soli collaboratori Janssen che ha come chitarrista e cantante lo stesso Massimo Scaccabarozzi. Non è un passatempo tra amici, questo risulta chiaro fin da subito, e lo si capisce dalle parole del frontman della band: «Dalla fondazione, avvenuta nell’ormai lontano 2008, la band ha eseguito quasi 140 concerti in tutta Italia – e qualcuno anche all’estero –, tutti a favore di associazioni in genere di piccole dimensioni, che hanno davvero bisogno delle cifre che riusciamo a raccogliere nelle nostre serate. Abbiamo suonato e cantato nel carcere Beccaria, per associazioni come “Donne in carcere”, per malati, per piccoli paesi che avevano bisogno di un presidio medico, per associazioni create da genitori per ricordare il loro figlio scomparso, per alcune scuole… Anche al Cutting Room di New York, davanti alla comunità italiana per un’associazione di donne malate di cuore! Per noi è una gioia poter fare questo: quando mi dicono “Voi date tanto” io rispondo “No, noi riceviamo tanto: quando torniamo a casa dopo un concerto sentiamo di essere persone migliori. Sono situazioni, queste che ti lasciano dentro sensazioni forti e uniche che è difficile ottenere da altro».

Qual è il repertorio? Musica rock, in tutte le salse, soprattutto Vasco Rossi ma non solo: «I nostri inizialmente erano concerti, adesso sono spettacoli. Ci cambiamo due-tre volte, ci vestiamo anche da pirati, tanto che ormai qualcuno mi chiama il “Capitano Uncino della solidarietà”, cosa che mi onora profondamente».

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LA CARTA D’IDENTITÀ DI JANSSEN ITALIA

Janssen è l’azienda farmaceutica del Gruppo Johnson & Johnson. È presente in Italia dal 1975 nelle due sedi di Cologno Monzese (MI) e Borgo San Michele (LT), per un totale di 1.260 persone impiegate. La produzione, destinata al 90% all’esportazione, ammonta a 4,5 miliardi di compresse all’anno. Janssen concentra la propria attività in sei aree terapeutiche chiave per la salute globale: neuroscienze, infettivologia, onco-ematologia, immunologia, ipertensione polmonare, malattie cardiovascolari e metaboliche. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha incluso 13 molecole frutto della ricerca Janssen nella lista dei “farmaci essenziali per l’umanità”.

Negli ultimi 5 anni Janssen ha ricevuto dal Gruppo Johnson & Johnson investimenti per 100 milioni di euro, che hanno portato a un aumento della capacità produttiva oltre che dell’occupazione.

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FONDAZIONE JOHNSON & JOHNSON

Alle attività di Janssen si affiancano quelle della Fondazione Johnson & Johnson, nata nel 2000 per promuovere iniziative di Organizzazioni non governative, Onlus e Istituzioni che operano per il benessere della collettività.

Affidabilità, scelta di obiettivi concreti, misurabilità dei risultati sono alcuni dei punti qualificanti delle attività filantropiche della Fondazione, che ha scelto di focalizzarsi su cinque aree di intervento: assistenza sanitaria alla comunità, salute dei bambini e della donna, responsabilità verso la comunità, formazione nel campo della gestione sanitaria.

IL CREDO AZIENDALE DI JANSSEN

«Noi crediamo che la nostra prima responsabilità sia verso i pazienti, i medici, gli infermieri, verso le madri e i padri e tutte le altre persone che usano i nostri prodotti ed i nostri servizi. Per soddisfare le loro necessità tutto ciò che facciamo deve essere di alta qualità. Dobbiamo costantemente sforzarci di fornire valore, ridurre i costi e assicurare prezzi ragionevoli. Gli ordini dei nostri clienti devono essere evasi con prontezza e cura. I nostri partner commerciali devono avere la possibilità di realizzare un equo profitto.

Siamo responsabili nei confronti del nostro personale che lavora con noi in tutto il mondo. Dobbiamo garantire un ambiente lavorativo inclusivo in cui tutti devono essere considerati in quanto persone. Dobbiamo rispettare la diversità e la dignità di tutti e riconoscere i loro meriti. Il posto di lavoro deve dare loro un senso di sicurezza, scopo e realizzazione. La retribuzione deve essere giusta ed adeguata e l’ambiente di lavoro deve essere pulito, ordinato e sicuro. Dobbiamo sostenere la salute e il benessere dei nostri dipendenti e aiutarli ad assolvere alle proprie responsabilità familiari e personali. Ciascuno deve sentirsi libero di proporre suggerimenti e presentare reclami. Deve esserci la stessa opportunità di lavoro, sviluppo e carriera per chi ha le capacità richieste. Dobbiamo far sì che i leader siano altamente competenti e che le loro azioni siano giuste ed eticamente correte.

Siamo responsabili nei confronti delle comunità in cui viviamo e lavoriamo, così come nei confronti di quella mondiale. Dobbiamo aiutare le persone a migliorare il proprio stato di salute sostenendo accesso e cure migliori in quanti più luoghi del mondo. Dobbiamo essere buoni cittadini: sostenere iniziative meritevoli ed opere benefiche, salute e istruzione migliori e portare il nostro giusto contributo di tasse. Dobbiamo conservare nelle migliori condizioni le proprietà che abbiamo il privilegio di usare, proteggendo l’ambiente e le risorse naturali.

La nostra ultima responsabilità è verso gli azionisti. L’attività economica deve generare un giusto profitto. Dobbiamo sperimentare nuove idee, sviluppare la ricerca, introdurre programmi innovativi, fare investimenti per il futuro e assumerci le nostre responsabilità in caso di errori. Dobbiamo acquistare nuove attrezzature, creare nuovi stabilimenti e lan- ciare nuovi prodotti. Dobbiamo creare riserve per garantirci nei momenti avversi. Se operiamo nell’osservanza di questi princi-pi, gli azionisti realizzeranno un equo guadagno.

Johnson&Johnson

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Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 15 (anno 5 n. 1) Febbraio/Marzo 2020

Il manifesto per la sostenibilità digitale

In evidenzaIl manifesto per la sostenibilità digitale

Presentato a Roma il decalogo che rappresenta una vision sul ruolo e sull’utilizzo delle tecnologie applicate al raggiungimento di un futuro sostenibile.

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Giovedì 12 dicembre 2019, nell’ambito dell’ottava edizione di “Tecnologia digitale” che si è svolta a Roma presso la Camera dei Deputati, è stato presentato il Manifesto per la Sostenibilità Digitale, elaborato dal Digital Transformation Institute – Centro di ricerca volto allo studio delle dinamiche della “rivoluzione di senso” indotta dalla trasformazione digitale e del suo contributo alla sostenibilità ambientale, culturale, sociale ed economica – e finalizzato a fornire punti di riflessione sugli impatti che le tecnologie digitali possono avere sulla società.

In particolare, si tratta di dieci punti che rappresentano una base di partenza per meglio comprendere come sfruttare in modo positivo le leve della tecnologia e del digitale in riferimento ai 17 goals, gli obiettivi dalle Nazioni Unite fissati nell’Agenda 2030.

«Il Ministero dell’Innovazione – ha sottolineato la ministra Paola Pisano prima firmataria del Manifesto – punta sulla sostenibilità economica e sociale quale leva di innovazione e sviluppo, ed evidenzia come la tecnologia sia un alleato indispensabile per supportare un processo di sviluppo che metta al centro la sostenibilità. Ambiente, economia e società fanno parte di un sistema complesso del quale la politica deve occuparsi in maniera unitaria, non si può quindi prescindere da questa consapevolezza per sviluppare le politiche del futuro e dare senso compiuto all’innovazione».

«In un momento in cui tutti si chiedono se la tecnologia faccia bene o male, è importante riflettere – ha aggiunto Stefano Epifani, Presidente del Digital Transformation Institute – su come fare a sviluppare una tecnologia che sia pensata per fare bene. E fare bene vuol dire perseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile di Agenda 2030».

Per condividere i principi del Manifesto per la Sostenibilità Digitale è possibile promuoverne la sottoscrizione al proprio Comune, alla propria Regione, alle Scuole, alle Università, agli Ordini Professionali, alle Associazioni che si vogliano impegnare a costruire un futuro sostenibile anche grazie al ricorso alle tecnologie digitali.

(Per info: www.techeconomy2030.itwww.digitaltransformationinstitute.it)

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Paola Pisano, Ministro dell’Innovazione, mentre firma il Manifesto con il Presidente del Digital Transformation Institute, Stefano Epifani.

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I DIECI PUNTI DEL MANIFESTO

1. La trasformazione digitale non impatta solo sui processi cambiando il modo in cui si fanno le cose. Tocca la loro natura profonda, ridefinendone il senso.

2. La trasformazione digitale sviluppa un cambiamento su persone, ambiente, società, cultura, economia. Contribuire alla definizione della direzione di tale cambiamento è una responsabilità comune.

3. Gli sviluppi della tecnologia possono essere solo parzialmente orientati o determinati. Il tentativo di comprendere le dinamiche della trasformazione digitale, e di influenzarle, deve partire da questo assunto.

4. La definizione del ruolo del digitale nella società passa da due elementi: la direzione che si può imprimere agli sviluppi delle tecnologie e la retroazione che esse producono su persone, economia ed ambiente nel processo di cambiamento della società stessa. Tali elementi sono inscindibilmente collegati e profondamente interdipendenti.

5. Non ha senso limitarsi alla domanda se la tecnologia faccia “bene” o “male”. La tecnologia non è buona o cattiva. Ciò non vuol dire che non produca effetti nell’una o nell’altra direzione. È fondamentale quindi interrogarsi sugli impatti negativi per minimizzarli, ma concentrarsi su quelli positivi per valorizzarli.

6. L’impegno maggiore dell’uomo deve essere nel comprendere come la tecnologia sia funzionale ad esso, e non il contrario. A tale scopo dobbiamo tentare di orientarne gli sviluppi perché produca, strumentalmente, impatti positivi sulla società.

7. Il concetto di impatto positivo sulla società si concretizza nel contributo della tecnologia allo sviluppo di una società sostenibile.

8. I criteri di sostenibilità economica, sociale ed ambientale definiti dalle Nazioni Unite e consolidati in Agenda 2030 devono diventare un faro nelle scelte che determineranno lo sviluppo delle tecnologie quali strumenti per costruire un futuro sostenibile.

9. Il sistema culturale, fatto di intellettuali, accademici, ricercatori, operatori dell’informazione deve promuovere la conoscenza degli strumenti tecnologici favorendo lo sviluppo di consapevolezza diffusa in cittadini, istituzioni, imprese, decision maker.

10. La storia dimostra come la tecnologia abbia migliorato le condizioni di vita delle persone. L’operato dei decision maker deve essere quindi orientato a favorire il massimo sviluppo tecnologico in un quadro interpretativo che – senza frenare il progresso – lo orienti in una direzione compatibile e strumentale a un mondo sostenibile.

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Articolo pubblicato a firma Carlo Rho sul magazine CSROggi n. 14 (anno 4 n. 5) Dicembre 2019

Microsoft. Investire sulle competenze digitali, il futuro lo richiede

In evidenzaMicrosoft. Investire sulle competenze digitali, il futuro lo richiede

Il nostro Paese è protagonista di un evidente paradosso: da una parte si registra un elevato tasso di disoccupazione, dall’altra sappiamo che nei prossimi anni le aziende avranno bisogno di almeno 135mila persone con competenze digitali. Per questo Microsoft sta spingendo molto sulla formazione a livello di scuole, università e mondo del lavoro. Ne parliamo con Barbara Cominelli, Direttore Marketing & Operations Microsoft Italia.

Microsoft, nel mondo, è da sempre molto attenta al concetto di sostenibilità. Lo è con riguardo alla produzione, al risparmio di energia, all’utilizzo della tecnologia da utilizzarsi per valorizzare il patrimonio ambientale e culturale, al sostegno delle diversità, all’aiuto in presenza di disastri umanitari, al risparmio dell’acqua…

Una progettualità che spesso tiene conto del Paese in cui Microsoft opera, delle sue caratteristiche e delle sue esigenze.

Quali sono gli ambiti di impegno in questa direzione in Italia? L’abbiamo chiesto a Barbara Cominelli, Direttore Marketing & Operations Microsoft Italia.

In Italia su quali progetti legati alla sostenibilità vi state focalizzando?

«Le due aree di attività in cui ci muoviamo principalmente sono quella delle competenze digitali e quella dell’inclusione. La prima è fondata sul presupposto che se non hai le competenze per utilizzare il digitale come motore di crescita, rischi di restare escluso dall’onda di sviluppo che caratterizzerà i prossimi 10 anni. Per quanto riguarda la seconda siamo partiti lo scorso anno con il progetto “Ambizione Italia”, partendo dal dato che rivela che se nel nostro Paese utilizzassimo al meglio l’intelligenza artificiale, da qui al 2030 ci sarebbe un impatto positivo di fatturato, quindi di crescita delle nostre aziende, del 23%. Con un aumento della produttività, tema su cui non siamo del tutto eccellenti, del 12%. In un Paese che cresce poco è chiaro che sarebbe un’opportunità straordinaria».

Le aziende italiane sono consapevoli di questo? Avvertono questa esigenza?

«L’80% dei nostri clienti considera cruciale il tema del digitale e dell’intelligenza artificiale. Ma quando chiediamo loro se stanno investendo risorse in questa direzione, ci accorgiamo che solo il 15% delle aziende ha in atto progetti pilota, contro una media del 32% in Europa. E alla domanda “Come mai non te ne stai occupando?” La risposta non è “non ho investimenti”, “non ho visione”, ma è “non ho le competenze per approntare questo progetto di trasformazione”».

Qual è la situazione relativa alle competenze digitali a livello nazionale?

«Siamo molto in ritardo. L’Indice DESI (The Digital Economy and Society Index, ndr.) che valuta la competitività digitale e le competenze digitali, parla chiaro: in Europa siamo 26esimi su 28, dopo di noi ci sono solo la Bulgaria e la Grecia. A questo dobbiamo aggiungere il 30% di disoccupazione giovanile media nel Paese, con alcuni aspetti particolari legati ad esempio alle ragazze con età compresa tra i 24 e i 29 anni il cui 40%, come dice un’indagine 2018 dell’ISTAT è NIT: cioè non studia, non lavora e non cerca lavoro. Detto questo, scopriamo che siamo in presenza di un evidente paradosso: da una parte abbiamo un elevato tasso di disoccupazione e dall’altra sappiamo che nei prossimi anni ci mancheranno 135mila persone con competenze digitali, perché le aziende le cercano. Da un lato i ragazzi non trovano opportunità, dall’altro le aziende non trovano i profili».

Si può dire, dunque, che siamo in presenza di un sistema che non sta producendo le competenze giuste…

«È proprio così. Per questo l’anno scorso ci siamo posti l’obiettivo di formare 500mila persone e ingaggiarne 2 milioni. Per farlo abbiamo creato una serie di progetti che partono dalla scuola (“Missione Italia per la scuola”) grazie a cui, insieme a Fondazione Mondo Digitale, stiamo formando circa 250mila ragazzi tra i 12 e i 17 anni e 25mila docenti proprio sull’argomento “intelligenza artificiale”. Abbiamo messo a loro disposizione laboratori e corsi online distribuiti su tutto il territorio italiano, con una certa prevalenza per il sud. Procediamo così: l’insegnante prenota la lezione e porta i ragazzi nell’hub a loro più vicino, dove potranno assistere a lezioni su questo tema prestate da vari formatori. L’obiettivo di questo progetto, attivo da gennaio 2019, è accendere una lampadina nella testa di questi ragazzi, interessarli alla tecnologia e fare capire loro che non è solo una materia per tecnici, ma è una sorta di “cassetta degli attrezzi” che può essere utilizzata per fare molte altre cose: creare progetti, prodotti, esperienze. Vedi che c’è fame per questo tipo di cose, non è un problema di domanda, è un problema di offerta, per cui quando tu metti queste cose a disposizione dei ragazzi loro si entusiasmano».

Prima ha accennato al problema della disoccupazione che riguarda il target “giovani donne”. Avete progetti che riguardano quest’area, nello specifico?

«Sì, sempre sul tema del coding, insieme all’Ambasciata Americana e a Fondazione Mondo Digitale abbiamo lanciato la sesta edizione di “Coding girls” per formare alcune ragazze un po’ più grandi perché vadano nelle scuole a insegnare alle ragazze più giovani, così da “scardinare” lo stereotipo che vuole che il coding sia una cosa prettamente maschile e da nerd. La nostra idea è che quando te lo spiega una ragazza come te, ma più grande, capisci che non è solo una cosa da maschi. Per noi è fondamentale che tutti i nostri giovani possano avere la possibilità di studiare il coding come materia affiancata alle altre classiche: non è detto che il digitale sarà il loro mestiere, in futuro, ma avranno a disposizione comunque uno strumento in più da mettere in campo».

A livello di Università, quali progetti state attuando in ambito di competenze digitali?

«Sull’università stiamo lavorando a un progetto un po’ differente, che ha l’obiettivo di porsi come ponte tra l’università e il mondo del lavoro. Insieme alla Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI, ndr) e insieme ad alcune grandi aziende – Telecom, Ernts & Young e Poste Italiane – abbiamo ideato un progetto pilota in cui noi di Microsoft mettiamo a disposizione la tecnologia, CRUI raduna alcune università interessate (Politecnico di Milano, Università di Bari e Napoli) e le aziende richiedono professionalità legate all’ambito digitale. Se l’azienda a Bari ha bisogno di esperti di bigdata allora in quella città ci focalizziamo su quello. A Genova c’è invece bisogno, ad esempio, di agenti di cyber security? Lì cerchiamo di impostare quel percorso di studio, attuandolo insieme ai professori dell’ateneo di riferimento. È un progetto ancora in fase iniziale, ci piacerebbe farlo crescere, non è impossibile».

Pensate di mettere in atto, in futuro, anche collaborazioni con università di altri Paesi?

«Stiamo già lavorando con l’università californiana di Stanford, che ha creato un centro internazionale sull’intelligenza artificiale. Lì hanno radunato persone super tecnologiche e le hanno riunite con sociologi, psicanalisti, esperti comportamentali, giornalisti… perché l’avvento della robotica è una rivoluzione che riguarda tutti i settori e il suo successo futuro dipenderà anche da come verrà raccontata: se verrà presentata in modo che faccia paura, cosa che oggi avviene peraltro abbastanza di frequente, si otterranno reazioni negative da parte dell’opinione pubblica. Il punto chiave è che non dobbiamo chiederci solo che cosa la tecnologia “può” fare. Dobbiamo chiederci che cosa “deve” fare, per cui dobbiamo preoccuparci di porre i limiti, i paletti che mantengano il suo utilizzo in un ambito etico e responsabile. Ed è questo il motivo per cui a Stanford hanno coinvolto anche chi ha competenze umanistiche ed è in grado di occuparsi dell’aspetto etico della questione».

La poca conoscenza del mondo digitale riguarda anche chi già lavora. Per loro avete pensato a qualcosa?

«Abbiamo attività dedicate a chi è già inserito nel mondo del lavoro ma ha necessità di sottoporsi a un percorso di aggiornamento. In questa direzione abbiamo avviato due diversi tipi di intervento. Il primo un po’ più tecnico, verticale, per chi ha già lavorato nell’IT o in mondi professionali simili e ha bisogno di aggiornarsi. Sul territorio abbiamo circa una cinquantina di accademie che si occupano di questo progetto di reskilling. I dati ci dicono che ultimato il percorso, il 90% di queste persone trova un lavoro consono alle nuove competenze acquisite. Il secondo percorso l’abbiamo realizzato con Adecco e consiste in una piattaforma digitale di nome PHYD, che permette di valutare le proprie competenze, scoprire quali sono le lacune rispetto alle richieste del mercato e “frequentare” un percorso formativo principalmente online volto a sopperire queste mancanze».

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 14 (anno 4 n. 5) Dicembre 2019

Momenti di Salone (della CSR e dell’Innovazione sociale 2019)

In evidenzaMomenti di Salone (della CSR e dell’Innovazione sociale 2019)

L’edizione del Salone della CSR e dell’Innovazione sociale 2019, la settima, ha registrato numeri d’eccezione: 6.000 visitatori, 400 relatori, 100 eventi, 216 organizzazioni coinvolte.

«Un elemento è emerso dagli incontri che si sono tenuti in questi due giorni – ha sottolineato Rossella Sobrero, Docente universitaria e Presidente di Koinètica, organizzatrice e anima del Salone –: la vera sostenibilità significa anche un nuovo modo di intendere la relazione con gli stakeholder e il valore dei brand viene collegato non più solo al capitale economico ma anche a quello umano, relazionale, ambientale. Anche per questo sono sempre di più le imprese che integrano la sostenibilità nei piani strategici: non per adeguarsi a leggi e regolamenti ma per dare risposte alle richieste di un mercato in rapida evoluzione».

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ROSSELLA SOBRERO

ALCUNE CONSIDERAZIONI POST SALONE DELLA CSR

Rossella Sobrero

Da tutti gli incontri del Salone è emerso che la vera sostenibilità è gestire in modo responsabile l’organizzazione modificando anche la relazione con gli stakeholder.

Al Salone hanno partecipato molte imprese che hanno integrato la sostenibilità nei piani strategici non per adeguarsi a leggi e regolamenti ma per dare risposte alle richieste di un mercato in rapida evoluzione.

Gli asset intangibili sono riconosciuti importanti non solo dagli stakeholder più attenti ai temi sociali e ambientali ma anche dagli investitori.

Il valore del brand viene sempre di più collegato a diversi capitali: oltre a quello economico anche a quello umano, relazionale, ambientale.

La collaborazione diventa importante: crescono le partnership, si sviluppano reti di organizzazioni sostenibili, migliora la capacità di fare networking tra i diversi attori del territorio.

Cambia il modo di comunicare: diventano prioritari valori quali trasparenza, coerenza, integrità, condivisione.

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SERGIO VAZZOLER

LA MOBILITAZIONE DEL MONDO GIOVANILE

Sergio Vazzoler

Alla fine dell’incontro dal titolo “Come comunicare l’ambiente ai tempi di Greta Thunberg” abbiamo intervistato uno dei partecipanti, Sergio Vazzoler, esperto di comunicazione ambientale e partner di Amapola – Talking Sustainility, società di consulenza specializzata nella comunicazione di sostenibilità.

Quali sono i vantaggi della grande esposizione dovuta al fenomeno Greta Thunberg?

«Il vantaggio, clamoroso, è la capacità di mobilitazione di un mondo, quello giovanile, che in questi ultimi 10 anni è rimasto silente sui grandi temi politico-sociali. Una capacità che non può essere offuscata dall’arroganza di noi adulti, che in qualche modo cerchiamo di sminuire l’intervento con l’accusa che ci sia, alla sua base, “troppo ideologia”. Ben venga questo movimento, perché le politiche dei governi e delle nazioni stanno dimostrando di non avere il passo giusto per raggiungere gli obiettivi che invece la scienza ci richiede. Greta è il messaggero perfetto per creare un movimento dal basso che spinga poi politica, istituzioni e imprese ad agire più in fretta».

E quali sono, invece, i rischi di questa sovraesposizione?

«Il primo rischio è che questo fenomeno, ormai divenuto di massa, spinga coloro che hanno le leve del potere a dire “sì, vai avanti” senza però che venga effettivamente messo a terra alcun provvedimento concreto. Il secondo rischio è che ci si fermi qui, mentre ora serve che si faccia un passo in più, che è quello di entrare nel merito delle questioni e di non penalizzare troppo le persone più deboli. Penso ad esempio che sia meglio usare gli incentivi per favorire mezzi ibridi ed elettrici piuttosto che utilizzare la leva della tassazione contro i combustibili più inquinanti. Il rischio è che quest’operazione venga vista come elitaria – bio che costa il doppio del prodotto di largo consumo, auto elettriche inaccessibili, ecc. – per cui si venga a creare un’antipatia verso il tema ambientale da parte di quelle fasce di popolazione che invece potrebbero beneficiarne maggiormente perché magari vivono in aree più a rischio di conseguenze impattanti».

Un commento sul salone 2019?

«Noi che ci siamo dal primo anno e abbiamo visto crescere il Salone, possiamo dire che in questa edizione si sono visti segnali evidenti di crescita di interesse per i temi trattati. Visto che bisogna sempre pensare a quello che verrà, per il prossimo anno butto lì l’idea di creare dei percorsi ad hoc per le piccole e medie imprese, in modo tale che possano trovare strumenti da utilizzare nella loro realtà senza spaventarsi di fronte a programmi molto ambiziosi di realtà grandi, che già da anni hanno sviluppato azioni mirate alla sostenibilità. Non dobbiamo perdere di vista il fatto che in Italia c’è un mondo economico ancora in sofferenza, è importante prestare attenzione a tutte quelle realtà che in futuro diventeranno strategiche per poter raggiungere gli obiettivi che tutti ci prefiggiamo».

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MATTEO PEDRINI

OGGI I NOSTRI INTERLOCUTORI NON SONO PIÙ DA CONVINCERE

Abbiamo incontrato Matteo Pedrini, professore associato Corporate Strategy dell’Università Cattolica di Milano, vice direttore di Altis e direttore scientifico del CSR Manager network, alla fine dell’incontro “Tecnologia, innovazione, sostenibilità” che l’ha visto tra i protagonisti.

Matteo Pedrini

Trova qualcosa di diverso in questo Salone CSR, rispetto a quello degli scorsi anni?

«Noto come la presenza dei giovani sia sempre in crescita, il loro interesse sull’argomento sostenibilità è sempre più evidente e molti di loro cominciano a pensare a una loro futura professione legata a questi temi».
Di sostenibilità si parla oggi sempre più, anche se spesso collegata al clima e all’ambiente. Come giudica questo fatto? Positivamente o negativamente?
«Penso che lasciarci trasportare dagli aspetti ambientali sia ottimo perché ci si preoccupa di apportare cambiamenti significativi per l’uomo. Penso però anche che sia necessario prestare attenzione anche agli aspetti più sociali e, magari con meno eco, questo viene fatto da molte realtà. Come Altis sono anni che lavoriamo su temi legati alla sostenibilità e quindi oggi siamo molto soddisfatti perché cominciamo ad avere interlocutori che non sono più da convincere. Oggi i CSR manager hanno conoscenze e competenze molto interessanti per le aziende. Fino a qualche anno fa i vertici aziendali erano piuttosto scettici su questi temi, ora si sono convinti della loro validità».

Questo avviene di sicuro nelle grandi aziende, mentre nelle PMI sembra esserci una maggiore fatica a comprenderne le modalità d’approccio. È davvero così?

«Non sono del tutto d’accordo. Tutto quello che vediamo nelle grandi aziende, nelle PMI ha una forma diversa. Qui spesso si parla di una conduzione famigliare, con risorse diverse, per cui attuare la sostenibilità in una piccola azienda potrebbe voler dire procedere con investimenti al di sopra delle proprie capacità. Nonostante questo, però molto viene oggi fatto, anche se spesso non viene comunicato, sappiamo di azioni straordinarie messe in campo di piccole aziende di cui però la maggior parte delle persone non sa niente, un po’ per mancanza di cultura della comunicazione delle piccole aziende».

Quanto la tecnologia può aiutare la sostenibilità?

«La tecnologia di per sé non vuol dire niente, dipende dall’applicazione che se ne fa. Se ben interpretata è di sicuro un fattore abilitante e un potente acceleratore della sostenibilità».

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FRANCESCA SILVA

IN BURKINA FASO, CONTRO LO SFRUTTAMENTO DEL LAVORO MINORILE

Francesca Silva, Direttrice operativa di CIAI, Centro Italiano Aiuti all’Infanzia, al Salone 2019 ha presentato un’app che consentirà il riconoscimento facciale degli alunni delle scuole e del Burkina Faso.

Francesca Silva

Di che cosa si occupa CIAI?

«CIAI è un’organizzazione non governativa che nasce nel 1968 da un gruppo di famiglie e che si occupa a 360 gradi di infanzia. Il nostro motto è “Ogni bambino è come un figlio” e quindi ci prendiamo cura di tutti i bambini come se fossero nostri figli».

Che cosa avete raccontato al Salone?

«Abbiamo raccontato un’esperienza che parte proprio in questi giorni perché oggi è il primo giorno di scuola in Burkina Faso. Si tratta di un’App che consente di rilevare attraverso il riconoscimento facciale, le presenze dei bambini nelle classi dei villaggi rurali in Burkina Faso e di categorizzare quanti sono maschi e quante sono femmine. Questo processo, che opera attraverso l’utilizzo delle reti neurali artificiali, ci consentirà di monitorare sia gli accesi alla scuola, sia gli eventuali abbandoni scolastici. Questo è un problema molto diffuso in Burkina Faso, dove quasi il 41% dei bimbi tra i 5 e i 17 anni lavora e di conseguenza questo comporta importanti tassi di abbandono scolastico. Il nostro intento è quello di agire su questo tema attraverso l’innovazione tecnologica, utile perché ci consente di rilevare anche il dato di genere. Non è un punto da sottovalutare perché di solito le bimbe sono quelle che con meno frequenza accedono all’istruzione e che più facilmente abbandonano il percorso scolastico».

A quale livello avete raggiunto accordi in Burkina Faso?

«Questo progetto oggi parte in 10 scuole di 10 municipalità, quindi collaboriamo con le istituzioni locali di riferimento. Anche perché l’idea è quella di riuscire a portare i risultati di questo progetto anche a livello più alto, nazionale, con l’obiettivo che il Ministero dell’istruzione del Burkina Faso possa fare suo questo strumento e diffonderlo a livello nazionale».

Da dove nasce l’idea di sviluppare il vostro progetto proprio in Burkina Faso?

«CIAI lavora in questo Paese fin dal 1995, sempre con particolare attenzione al tema dell’istruzione, sia in ottica di favorire l’accesso, sia in quella di favorire la qualità dell’istruzione. In questi territori, in particolare, abbiamo lavorato negli ultimi anni proprio dal punto di vista di istruire le scuole e formare gli insegnanti e oggi vogliamo fronteggiare questo fenomeno importante che è quello di favorire l’accesso dei bambini soprattutto in un’ottica di combattere lo sfruttamento del lavoro minorile».

Un progetto che potrebbe essere esportato in altri Paesi…

«Assolutamente sì, lo strumento, la sua tecnologia è assolutamente esportabile. Le condizioni proprie del Burkina Faso, dove ci sono villaggi rurali con classi sovraffollate di oltre 50 bambini, si ritrovano in molte altre realtà del mondo, quindi potenzialmente il progetto è esportabile».

Un’impressione sul Salone 2019?

«Sono rimasta molto colpita dalla partecipazione, sia a livello generale del Salone sia per quanto riguarda i singoli momenti. Molto interessante è la possibilità di scambio che si viene a creare tra le varie esperienze. Noi abbiamo avuto la possibilità di presentare la nostra App, che potrà in futuro essere messa a disposizione di altre organizzazioni come la nostra facendo nascere collaborazioni virtuose».

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GLI AMBASCIATORI DELLA SOSTENIBILITÀ

Tra le iniziative del Salone 2019 spicca la raccolta di adesioni all’iniziativa
“Gli ambasciatori della sostenibilità” che prevede l’assunzione da parte dei firmatari di alcuni impegni concreti e realizzabili ispirati ai 17 goals dell’Agenda 2030.

Nell’ambito del Salone 2019 è stata lanciata l’iniziativa “Ambasciatori della Sostenibilità” che ha visto alcune centinaia di visitatori della Kermesse dedicata alla CSR dichiarare di voler sostenere, con la propria firma, una serie di impegni per costruire un futuro sostenibile.

I comportamenti responsabili richiesti ai firmatari, indispensabili per contribuire a migliorare la qualità della vita delle persone e del pianeta sono:

  1. Eliminare l’utilizzo di oggetti di plastica usa e getta. Dai un addio a bicchieri, piatti, tovaglie e posate di carta e plastica.
  2. Ridurre lo spreco alimentare. Acquista solo quello che serve e impara a riciclare gli avanzi
  3. Riparare, regalare o vendere, mai buttare! Ricorda che gli oggetti possono avere più di una vita.
  4. Limitare l’uso dell’auto. Usa l’auto solo quando è indispensabile e condividi il viaggio con colleghi e amici.
  5. Abbattere tutti i muri. Promuovi azioni per una cultura inclusiva, capace di superare tutte le barriere.

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 13 (anno 4 n. 4) Novembre 2019

Fondazione Francesca Rava: «La nostra esperienza al servizio delle aziende che fanno volontariato»

In evidenzaFondazione Francesca Rava: «La nostra esperienza al servizio delle aziende che fanno volontariato»

Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava- N.P.H. Italia: «Promuoviamo la misurazione d’impatto dei progetti di volontariato aziendale, così da poter restituire a beneficiari, dipendenti e governance aziendale la consapevolezza reale del valore creato».

Fondazione Francesca Rava, che aiuta l’infanzia in condizioni di disagio in Italia e nel mondo, è da sempre impegnata nella diffusione nei valori del volontariato tra individui e aziende, anche attraverso programmi di volontariato d’impresa, in un percorso di formazione, consapevolezza e sostenibilità.

In particolare, la Fondazione è impegnata nella diffusione della cultura del volontariato con l’organizzazione di campus solidali, iniziative nazionali come la raccolta di farmaci pediatrici “In Farmacia per i Bambini” che impegna piu di 2.500 volontari su tutto il territorio, il programma di aiuto alle case famiglia “Noi non siamo indifferenza, noi facciamo la differenza”, progetti ad hoc in grado di valorizzare l’impegno di responsabilità sociale degli individui e di aziende con la formula del volontariato d’impresa.


L’importanza del volontariato aziendale

Per agevolare le aziende che mettono in campo attività di CSR e di impatto sulle comunità, Fondazione Rava mette a disposizione il suo network, costituito da un sistema valoriale e di relazione con le Istituzioni costruite sul campo, con un’opera di vero e proprio empowerment dell’azienda.

La Fondazione crede che il volontariato aziendale non debba essere un’azione da compiere in modo occasionale, o con un progetto isolato, ma debba fare parte di un percorso di formazione, con l’accompagnamento dei dipendenti dell’azienda a comprendere il motivo per cui si fa qualcosa e come lo si deve fare, perché la responsabilità sociale dell’azienda passa anche per la responsabilità degli individui che ne fanno parte.

Un progetto di volontariato aziendale deve anzitutto coinvolgere nella progettazione tutti gli stakeholders: la governance aziendale, i dipendenti, le istituzioni, le comunità del territorio. Per essere valido, deve inoltre essere un percorso di creazione di valore e di impatto concreto nelle comunità di riferimento. E deve, infine, essere un percorso fattivo dell’azienda che deve dimostrare di aver portato un cambiamento sostenibile.


Il ruolo di Fondazione Francesca Rava

Fondazione Rava, come detto, mette in campo l’esperienza accumulata negli anni nel mondo del Terzo settore e accompagna l’azienda nel percorso di volontariato scelto. Il suo ruolo è quello di costituire un tramite tra i bisogni delle singole realtà, di attivare le relazioni umane, di dare continuità agli aiuti e di garantire che il risultato e le risorse messe in campo dall’azienda producano un effettivo beneficio.


«Crediamo – sottolinea Mariavittoria Rava, presidente di Fondazione Francesca Rava – N.P.H. Italia – che occorra misurare l’impatto dei progetti di volontariato aziendale, così da poter restituire a tutti gli stakeholders, in particolare ai beneficiari, ai dipendenti e alla governance aziendale la consapevolezza reale del valore creato. La misurazione dell’impatto permette alle aziende di inserire questi programmi nella propria strategia, nel proprio budget e nella pianificazione del proprio lavoro».

BCG, Fondazione Francesca Rava e il rilancio di Cascia

La Fondazione Francesca Rava, in collaborazione con la Protezione Civile, con il Ministero dell’Università e della Ricerca e con le istituzioni locali e grazie a tanti donatori ha ricostruito 8 scuole tra Marche e Umbria, nei luoghi devastati dal terremoto del 2016 e continua a lavorare per portare aiuto a migliaia di bambini e le loro famiglie.

Un impegno che si è sviluppato in particolare a Cascia, in provincia di Perugia, dove nel 2017 la Fondazione ha donato le scuole primarie e secondarie di primo grado e, nel 2018 ha contribuito alla riapertura dell’Ospedale della Valnerina.

Proprio a Cascia, nei giorni tra il 18 e il 20 settembre scorsi, il team della Fondazione Rava con 560 persone di BCG (Boston Consulting Group, società leader nella consulenza strategica, presente in 50 Paesi del mondo e attiva in Italia da oltre 30 anni) hanno vissuto tre intensi giorni in relazione con la comunità locale, portando aiuto concreto con attività di volontariato e stimolando la ripresa economica del territorio.

Un’esperienza che ha visto BCG mettere in campo, per l’attuazione del progetto, competenze specifiche di progettualità e lavoro di team, risorse umane e la propria forza economica. Dal canto suo Fondazione Rava ha fornito la propria competenza nelle relazioni umane, nella collaborazione con le istituzioni e la continuità del lavoro nelle comunità in difficoltà.


Queste le attività realizzate:
• esercitazioni con la Protezione Civile, per avere conoscenza di quanto avviene nelle situazioni di emergenza
• tre diversi cammini, per entrare in contatto con la ricchezza del territorio e scoprirne le ferite dovute al sisma
• riqualificazione della piazza principale di Cascia, piazza San Francesco, con la predisposizione di un nuovo parco giochi allestito anche grazie al lavoro dei volontari
• decorazione di alcuni edifici scolastici e accompagnamento ai ragazzi delle scuole alla scoperta delle opportunità del mondo della consulenza e del Terzo settore.

Oltre alla soddisfazione per avere contribuito al miglioramento della qualità della vita delle popolazioni così duramente colpite, le persone di BCG hanno avuto l’opportunità di vivere l’azienda in un modo differente, avendo dato loro una preziosa opportunità di mettersi a disposizione degli altri, facendo stare bene prima di tutto loro stessi.

Giuseppe Falco, Amministratore delegato di BCG ha dichiarato: «Questi obiettivi nascono in risposta alle richieste di rilancio che la comunità di Cascia esprime con forza, e per realizzarli BCG e Fondazione Francesca Rava intendono anche ricondurre l’attenzione pubblica su questo territorio ancora in difficoltà a tre anni dal sisma. La vera ricostruzione va ben oltre il pur fondamentale intervento sugli edifici e le infrastrutture».

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 13 (anno 4 n. 4) Novembre 2019

Gruppo Cremonini, dare energia all’uomo senza toglierla al pianeta

In evidenzaGruppo Cremonini, dare energia all’uomo senza toglierla al pianeta

Fondata nel 1963, l’azienda di Castelvetro, in provincia di Modena, è oggi la prima società privata in Europa nella produzione di carni bovine e prodotti trasformati a base di carne. Ne parliamo con Claudia Cremonini, responsabile Relazioni Esterne, Comunicazione e sostenibilità del Gruppo, e con Giovanni Sorlini, Responsabile Qualità, Sicurezza e Sviluppo Sostenibile di Inalca.

Da oltre 55 anni Inalca, società controllata dal Gruppo Cremonini, rappresenta un punto fermo nella produzione e distribuzione di carne bovina nel nostro Paese e in buona parte del mondo.

Ma la capacità imprenditoriale del suo fondatore e presidente, Luigi Cremonini, e del management di cui si è circondato, primo fra tutti il figlio Vincenzo, Amministratore delegato del gruppo, ha fatto sì che in tutti questi anni l’attività dell’azienda di Castelvetro, in provincia di Modena, si sia diversificata occupandosi oggi, oltre che di tutte le attività annesse al commercio della carne bovina, dall’allevamento alla distribuzione, anche di produzione di carne in scatola, di commercializzazione e distribuzione al foodservice, di ristorazione in stazioni, autostrade e aeroporti e di ristorazione commerciale attraverso i ristoranti a marchio Roadhouse.

Claudia Cremonini

Un’attività che in alcuni di questi settori si svolge sempre più oltre confine – in particolare in Russia e in molti Paesi dell’Africa – nella consapevolezza che i margini di crescita sono destinati a salire di pari passo con l’ampliamento del mercato.

Parliamo del Gruppo e delle sue tre colonne portanti – produzione, distribuzione e ristorazione – con Claudia Cremonini, responsabile Relazioni Esterne, comunicazione e sostenibilità del Gruppo.

Il Gruppo Cremonini è sul mercato della carne bovina da 55 anni. Come si è evoluto il vostro impegno e che cosa significa essere leader in questo settore nel 2019?

«Il nostro è un lungo percorso, che ha attraversato epoche magari vicine dal punto di vista temporale ma molto diverse fra loro. Nel 1963, quando mio padre fondò questa azienda, c’era una maggiore cultura agricola, l’Italia era un Paese con un’economia molto legata all’agricoltura e all’allevamento degli animali. Gli sviluppi successivi, che hanno portato a una graduale ma continua metropolizzazione hanno contribuito a far scomparire la ruralità intesa come patrimonio culturale. Questo ha inciso anche sui gusti alimentari diffusi e quindi è un aspetto che ci ha toccati da vicino. Come Gruppo siamo contenti perché dopo questo percorso riusciamo oggi a vedere il coronamento di alcune scelte virtuose che costituiscono importanti elementi di differenziazione sul mercato e ci permettono di avere un ottimo rapporto con i nostri clienti. La carne da sempre è portatrice di simboli, prima ancora di proteine. Ma oggi non è più sufficiente fermarsi a una fornitura senza informazioni aggiuntive:in questo momento storico, contraddistinto da una fortissima sensibilità sociale, è importante essere in grado di documentare adeguatamente i propri processi produttivi virtuosi. Sappiamo che questo vale tanto quanto il fatto di avere prodotti buoni e ben distribuiti».

Spesso sui giornali si sottolinea che il consumo di carne non fa bene alla salute. Che cosa ne pensate?

«Noi italiani siamo il popolo più longevo al mondo, insieme al Giappone: segno di una buona alimentazione e di un sistema sanitario efficiente. Purtroppo, l’informazione generalizzata, quella che non va troppo a fondo delle situazioni, tende a subire il forte influsso della comunicazione anglosassone, soprattutto di quella americana. Oltre oceano questi temi hanno una valenza diversa, perché si tratta di contesti in cui si mangiano grandi quantità di carne, i dati dicono oltre 120 kg di media a persona ogni anno. Sono contesti alimentari molto differenti, difficilmente affiancabili a quelli del nostro Paese dove, al pari dell’Europa, i consumi di carni sono stabili dagli anni Novanta. Da studi scientifici si riscontra che in Italia il consumo reale di carne pro-capite annuale gravita attorno ai 40 Kg, comprendendo in questo numero tutte le carni: oltre al bovino, il pollo e il suino. Per questo diciamo che è importante contestualizzare l’informazione: nel nostro Paese, grazie anche alla tradizione della dieta mediterranea, si mangia carne in modo equilibrato e con effetti benefici per la salute».

La carne che lavorate e distribuite proviene esclusivamente da vostri allevamenti?

«Al momento, per quanto riguarda i bovini da carne, il prodotto che commercializziamo deriva al 30-35% da nostri allevamenti. Ma è un dato che è destinato a salire, perché la tendenza è quella di attuare un’integrazione di filiera sempre più spinta. Pensiamo che per mantenere alta la qualità dei nostro prodotti, per garantire flussi stabili, per mantenere standard produttivi, per attuare progetti di ricerca e sviluppo interni, sia per noi necessario aumentare la quota di carne autoprodotta».

Avete aziende sparse in varie parti del mondo. Come gestite il loro rapporto con la “casa madre”?

«Dal punto di vista della produzione abbiamo due unità produttive e sette piattaforme distributive in Russia che replicano la struttura delle nostre aziende italiane tenendo conto però delle esigenze proprie del mercato russo. Produciamo, cioè, quello che ci viene richiesto dai consumatori russi usufruendo di un ciclo di organizzazione industriale che parte dall’allevamento e procede con attività svolte in loco di trasformazione, disosso e produzione di semilavorati che, nello stabilimento di Mosca, vengono trasformati in hamburger pronti e finiti. Non siamo un’azienda che delocalizza e cerca di omologare a un unico standard tutte le produzioni sparse nel mondo. La nostra politica aziendale è quella di integrarci nel posto in cui operiamo e di recepire e fare nostre le istanze del mercato in cui abbiamo deciso di immergerci».

E in Africa?

«In Africa al momento siamo in una fase intermedia. Contiamo su 16 piattaforme distributive in Paesi come Angola, Algeria, Congo, Costa d’Avorio, Mozambico e da circa 25 anni realizziamo un’attività importante di distribuzione di prodotti alimentari. I prossimi passaggi saranno quelli di risalire la filiera fino ad arrivare all’allevamento e alla produzione di carne il loco, che rappresentano il completamento della nostra attività. Il tutto, muovendoci sempre in integrazione con le comunità agricole locali e con le politiche di sviluppo del Paese in cui operiamo».

Quale valenza date, come Inalca, al concetto di “sostenibilità della filiera”?

«L’integrazione produttiva tra i vari protagonisti della filiera è il modello di business della nostra azienda. Questo perché crediamo che solo integrando e governando i vari passaggi produttivi si riescano a tenere uniti i tre pilastri della sostenibilità».

Il pilastro sociale…

«Quello sociale, che per noi si traduce nella giusta remunerazione di tutti gli attori della filiera, a partire dall’allevatore, fino a tutti i dipendenti e collaboratori, nell’attenzione alla sicurezza su lavoro da attuarsi anche attraverso investimenti tecnologici».

Quello ambientale…

«Con una filiera ben definita è molto più facile spiegare al consumatore quale sia l’impatto della produzione. A questo proposito stiamo lavorando per applicare sistemi che ci consentano di ricavare dati d’impatto e di consumo dei nostri allevamenti e quindi di ricostruire – e tenere sotto controllo – l’impronta aggregata del nostro sistema produttivo. Altro aspetto importante è quello della promozione delle energie rinnovabili a livello agricolo, con la valorizzazione del biogas. Il letame bovino dal punto di vista energetico è una fonte preziosa (vedi sotto)».

…e quello economico

«L’integrazione della filiera consente di lavorare su progetti veri di sostenibilità anche economica. A livello industriale il vantaggio deriva dalla possibilità di aggregare quantità significative di sottoprodotti che consentono la massima valorizzazione possibile. Si pensi, solo per fare un esempio, all’uso farmaceutico del collagene bovino, dotato di proprietà meccaniche uniche rispetto a quelle di altri animali. Solo potendo lavorare su quantità estese si possono attenere risultati ottimali».

Si parla molto di economia circolare, che cosa ne pensate?

Tutto il nostro bilancio di sostenibilità è ispirato ai principi dell’economia circolare, basata sulla rigenerazione delle risorse e sull’azzeramento degli scarti. La zootecnia e il bovino, in particolare, ne sono una perfetta applicazione, in quanto la carne bovina è il risultato di uno dei sistemi più articolati e circolari, perché comprende tre importanti filiere: la carne, il latte e la pelle.

E la ricerca, quanto influisce?

«Ha un ruolo molto importante. Abbiamo un’intensa attività di R&S interna e in più ci avvaliamo di collaborazioni esterne di professionisti o società esterne. Siamo segnatari di un progetto di ricerca “Cluster tecnologici nazionali”, che rappresenta il tentativo del Ministero della Ricerca di mettere a sistema le grandi aziende, quelle piccole specializzate, il mondo scientifico e dell’università, partendo dalla consapevolezza che dove c’è la grande azienda si traina il valore e cresce e si canalizza meglio il mondo della ricerca. Siamo segnatari anche del Progetto Sofia (Sostenibilità della filiera alimentare), insieme ad altre aziende, grandi e piccole specializzate. Questo permette di moltiplicare le risorse interne aumentando le competenze per poi trasferirle a cascata all’allevamento».

Uno dei vostri obiettivi dichiarati è quello di “promuovere un consumo consapevole”. Che cosa significa?

«Per noi contribuire al “consumo consapevole” significa fornire al consumatore elementi di conoscenza degli aspetti positivi della carne e sulle sue modalità produttive in termini di benessere animale e sostenibilità ambientale. Non si tratta di una comunicazione di prodotto, specifica, né di seguire le mode alimentari e nutrizionali del momento, basate su cambiamenti di opinione sia in senso positivo sia in senso negativo. Significa far capire alla gente che la carne è un alimento prezioso che va consumata nella giusta dose, va inserita in un equilibrio nutrizionale che, per essere efficiente, deve mantenersi quanto più costante nel tempo».

Nel vostro bilancio di sostenibilità si parla di “Principio di precauzione”. Come l’applicate in concreto?

«Per noi osservare questo principio significa osservare sempre e comunque il livello di regolazione più severo possibile. Se ad esempio in campo farmaceutico so che in altri Paesi si richiedono standard superiori a quelli richiesti in Italia, teniamo conto di quelli stranieri. Significa anche utilizzare solo tecnologie che offrano maggiori garanzie, più cautelative, e certificare tutto quello che lo può essere, così da avere il controllo più severo possibile su ogni contesto».

Infine, un accenno ai vostri stakeholder di riferimento, ce ne può parlare brevemente?

«In considerazione del nostro intento di spingere sempre più verso l’integrazione, il nostro stakeholder principale è oggi Coldiretti. Nel settore bovino il nostro Gruppo, in particolare Inalca, ha trovato un equilibrio molto buono con Coldiretti: loro utilizzano il loro fortissimo e sacrosanto ruolo politico per tutelare il reddito e la vita futura dei produttori agricoli italiani, noi provvediamo a riempire di contenuti tecnici l’azione politica, fornendo gli elementi in grado di influenzare positivamente il mondo agricolo, attuando azioni che forniscano sempre più valore alla filiera nel suo insieme. Su un altro fronte, stiamo costruendo una relazione molto positiva con l’associazione animalista “Compassion in Word Farming”, che ci sta trasferendo le aspettative del mondo dell’animalismo organizzato e noi abbiamo cominciato a farle nostre e a trasferirle piano piano a livello di allevamenti. Si tratta di aspetti legati ad esempio al trasporto degli animali, alla qualità della lettiera e ad altri temi non previsti dalla normativa ma che stanno entrando sempre più nel comune pensiero. Tra i nostri numerosi stakeholder, inoltre, voglio sottolineare quelli legati al mondo della ricerca. Da questo punto di vista pensiamo che in futuro sarà utile cercare sempre più occasioni di confronto organizzato che possano essere lo spunto per approfondire tematiche di interessi quanto più generali, non solo aziendali».

GRUPPO CREMONINI, UNA STORIA LUNGA 55 ANNI

Il Gruppo Cremonini è nato nel 1963 quando il suo fondatore, Luigi Cremonini inizia l’attività nel settore delle carni bovine con la fondazione di Inalca (Industria Alimentare Carne) e dà così vita alla moderna industria della carne. In questi 55 anni di vita il Gruppo si è distinti a livello nazionale e internazionale come punto di riferimento nel mondo alimentare, non solo nel settore delle carni bovine ma anche in quelli della distribuzione e della ristorazione. Produzione, distribuzione e ristorazione: queste sono le tre colonne portanti della società.

Oggi il Gruppo Cremonini, la cui sede centrale è a Castelvetro, in provincia di Modena, impiega 18.500 dipendenti sparsi in buona parte del mondo. Nel 2018 ha realizzato ricavi per 4.184 milioni di euro. Il suo fatturato deriva per il 47% dalla produzione di carni bovine, salumi e snack, per il 38% dalla distribuzione e per il rimanente 15% dalla ristorazione.

LE LEADERSHIP DEL GRUPPO

Inalca (coi brand Montana, Manzotin, Fiorani e Ibis), ha la leadership in Italia nella produzione di carni bovine, hamburger e carne in scatola.Il Gruppo è poi il numero uno in Italia nella commercializzazione e distribuzione al foodservice di prodotti alimentari (MARR).

Sempre in Italia detiene la leadership nei buffet delle stazioni ferroviarie e vanta una presenza rilevante nei principali scali aeroportuali italiani e nella ristorazione autostradale (Chef Express). In Europa è uno dei maggiori operatori nel settore della ristorazione a bordo treno. Nella ristorazione commerciale è presente in Italia con i ristoranti a marchio Roadhouse.

L’ENERGIA CHE NASCE DAL LETAME

Come dei suini, anche dei bovini non si butta via niente. Lo dimostra il fatto che il loro letame, oltre che come fertilizzante, venga oggi ormai normalmente utilizzato per produrre energia.

Giovanni Sorlini

Ci parla di questo aspetto importante, dal punto di vista ambientale, Giovanni Sorlini, Responsabile Qualità, Sicurezza e Sviluppo Sostenibile di Inalca: «Il letame bovino ha una potenzialità metanogena molto elevata e per questo è un materiale ideale per la produzione di energia. Oggi si parla per lo più di energia elettrica e termica, ma in Inalca stiamo lavorando con progetti pilota avanzati per produrre anche energia per la forza motrice, sotto forma di bio-metano, che è la seconda generazione del bio-gas».

Già oggi esistono flotte di bilici alimentati a metano, l’obiettivo è quello di fornire questa fonte di energia ai mezzi utilizzati in ambito agricolo. «Il sistema di incentivi pubblici sta portando il contesto agricolo a fare scelte di questo tipo e la tecnologia dei mezzi di trasporto sta facendo passi da gigante. Esistono già alcuni trattori che si muovono grazie a questa fonte di energia, l’obiettivo è quello di fare in modo che quelle che oggi sono eccezioni diventino la normalità».

Quali saranno i vantaggi di un passaggio completo a questa fonte di energia?

«Il primo vantaggio è dato dal fatto che l’energia viene prodotta da fonti rinnovabili che consentono di ridurre l’impronta di carbonio, cioè di CO2. Il secondo è dovuto al fatto che dopo avere sottratto il metano dal letame bovino, rimane una parte di fertilizzante che è decisamente migliore dello stesso letame, perché è priva della parte di carbonio, che diventa energia, e c’è una maggior concentrazione della parte azotata. Il risultato: un materiale con un alto potere fertilizzante per il terreno, che consente, aspetto non secondario, di ridurre l’uso di quello chimico».

(Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 13 (anno 4 n. 4) Novembre 2019)

Finanza sostenibile: il ruolo degli SDGs nell’economia reale

In evidenzaFinanza sostenibile: il ruolo degli SDGs nell’economia reale

La rivoluzione digitale sta avendo luogo in questo momento, possiamo plasmarla, possiamo proteggerci da essa, darle la forma che vogliamo. Sono decisioni che devono essere prese dalle banche centrali, dai governi, ma anche dalle piccole e grandi comunità di investitori responsabili.

L’auditorium della Torre Velasca, ai piedi di uno dei grattacieli/monumento più rappresentativi di Milano, ha ospitato lo scorso 25 giugno 2019 l’incontro dal titolo “Finanza sostenibile: il ruolo degli SDGs (gli obiettivi di sviluppo sostenibile) nell’economia reale”.

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Marisa Parmigiani

A fare gli onori di casa Marisa Parmigiani, Responsabile Sostenibilità Gruppo Unipol, che nel suo intervento introduttivo ha illustrato le misure adottate a livello europeo in materia di finanza sostenibile: «La Commissione Europea ha deciso di dare un’accelerata al processo di affermazione della finanza etica, così che si possano rispettare gli accordi sul clima di Parigi. Per raggiungere i target di transizione servirebbero dai 175 ai 290 miliardi di euro di investimenti di privati all’anno».

Questi accordi sono già di per sé qualcosa di eccezionale, dal momento che hanno messo attorno al tavolo esperti di tutte le nazioni europee per decidere che cosa sia green e che cosa non lo sia.

«Per riuscire a raccogliere tutti questi investimenti, però, questa semplice condivisione di intenti non è sufficiente – ha sottolineato Parmigiani –. Per smuovere le masse è necessario che i prodotti per gli investimenti siano ben riconoscibili ed è fondamentale definire degli standard comuni. Devono poi essere messe in campo azioni – da attuarsi con lo strumento dei “regolamenti” comunitari – che permettano di riconoscere e incentivare operazioni di investimento su ambiti di sostenibilità».


Una tassonomia europea per la finanza sostenibile

Un passo importante fatto a livello di Unione Europea è quello della decisione di adottare una tassonomia uniforme a livello di tutto il continente, in modo tale che sia chiaro senza fraintendimenti che cosa s’intenda per investimenti sostenibili dal punto di vista ambientale, climatico e sociale.

«Uno strumento di questo tipo – le parole della responsabile Sostenibilità del Gruppo Unipol – aiuta gli investitori e le imprese a identificare le attività veramente sostenibili, così che l’economia possa trasformarsi da “brown” a “green” e possa divenire dinamica, flessibile e inclusiva. Tutto ciò avendo ben presente il fatto che rendere l’economia green non è un’operazione facile: non basta sostituire il petrolio con settori che non hanno emissioni. Non funziona così, non si possono eliminare interi settori, piuttosto questi devono avviare un processo di transizione. Dal punto di vista degli strumenti, la proposta di standardizzazione dei green bond, allineati alla tassonomia UE, comporterà l’obbligo della pubblicazione sia del location report (dove metto i soldi), sia dell’impact report (quale valore ambientale ho prodotto con i soldi che mi hai dato), mentre si è avviato il percorso per armonizzare gli indici di riferimento emessi dalle società di rating sulla base di una metodologia trasparente, altro punto dolente di efficacia e affidabilità del sistema attuale».


I soldi ci sono, ma come vengono spesi?

Simon Zadek

«Per finanziare obiettivi di sviluppo sostenibile serve molto denaro – l’esordio nell’incontro mattutino di Simon Zadek, rappresentante della Task force dell’ONU su Digital Financing e SDGs –, migliaia di miliardi per costruire infrastrutture, ridurre i combustibili fossili, rispettare l’ambiente.

Ma questo non ci deve portare a conclusioni sbagliate: non servono quantità maggiori di soldi, ce ne sono forse anche troppi, i mercati finanziari ne stanno muovendo a sufficienza».
Il problema non è tanto legato ai flussi finanziari, ma piuttosto al modo in cui questi sono impiegati. È necessario reimpostare l’approccio mentale verso i mercati e la creazione di una tassonomia europea può certo essere d’aiuto.

«La situazione sta cambiando a gran velocità in ogni singola area del sistema finanziario – ha sottolineato Zadek – e questo avviene soprattutto grazie alla digitalizzazione. Se pensiamo che il 90% dei dati disponibili attualmente nel mondo sono stati creati negli ultimi due anni, ci rendiamo conto di quale sia l’impatto di questa rivoluzione digitale. Grazie ai nuovi strumenti e ai canali digitali abbiamo oggi dati più veloci, numerosi, migliori. Ma la domanda è: questi dati, in generale, sono utilizzati nella giusta maniera?».

L’analisi della situazione mondiale rivela che siamo di fronte a una nuova generazione di flussi finanziari, è ora importante capire quali impatti avranno sui singoli Paesi e quale debba essere il ruolo delle varie Banche centrali.

«Abbiamo tutti una grande responsabilità nel gestire lo sviluppo sostenibile – ha concluso il portavoce della Task force delle Nazioni Unite –, servirà anzitutto che si attui una nuova era di sforzi governativi in questa direzione e che nasca una nuova e grande comunità di investitori responsabili. Abbiamo fatto negli ultimi anni passi da gigante e molto resta ancora da dare. I dati per gli investimenti sostenibili a nostra disposizione saranno sempre meno costosi e ci sarà la possibilità di gestire al meglio i rischi e sfruttare appieno le opportunità che si verranno a creare».

LA TAVOLA ROTONDA

SVILUPPO EQUO, SERVONO STANDARD DI MISURAZIONE CONDIVISI

L’approfondimento della mattinata è proseguito con una tavola rotonda moderata da Marco Girardo, giornalista di Avvenire, cui hanno partecipato Carlo Cimbri, Group CEO di Unipol, Innocenzo Cipolletta, Presidente Assonime e Panos Seretis, Head of ESG Research – EMEAMSCI Inc. Queste le domande e le risposte.

Come utilizzare gli SDGs nell’economia reale?

Risponde Carlo Cimbri: «L’accelerazione digitale è cominciata da tempo, osservarla dal punto di vista della sostenibilità è l’ultima suggestione. C’è un tema molto ampio che si collega proprio alla sostenibilità, un tema globale che interessa soprattutto gli USA. La diffusione della digitabilità presuppone che ci sia competizione equa per tutti, quindi è forse il caso di cominciare a porsi il tema dei monopoli dei dati: pochi operatori dispongono della grande maggioranza di questi e questo può essere un grande probema. E allora forse lo stimolo per chi si occupa di sostenibilità dovrebbe essere quello di pensare a questo tema per cercare di raggiungere uno sviluppo più equo».

Quali sono i rischi dell’indirizzamento dei vari mercati alla sostenibilità?

Risponde Innocenzo Cipolletta: «Il primo rischio è quello di creare regolamenti rigidi, quando invece servono semplici linee guida perché siamo in un campo in cui le incertezze sono ancora molte. Le situazioni cambiano in fretta, oggi più che in passato, e bisogna tenere conto delle diversità esistenti tra Paese e Paese per evitare di favorirne alcuni, che sono magari più avanti dal punto di vista tecnologico, rispetto ad altri. Un altro rischio è il fatto che le regole siano omologate a soggetti considerati a torto più rappresentativi. Le imprese sono molto diverse tra loro e le regole vengono in genere impostate su quelle più grosse e solo in seguito trasportate su quelle più piccole. Ecco, nel campo della sostenibilità si stanno disegnando regole che sono funzionali alle grandi imprese e che rischiano di estromettere dal mercato quelle più piccole».

Come non correre dunque il rischio dell’eccessiva standardizzazione?

Risponde Panos Seretis: «Oggi i clienti sono più maturi di quanto pensiamo. Mancano regole precise, ma gli investitori sanno come fare per individuare le società virtuose dal punto di vista degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Lo fanno anzitutto chiedendo alle società di aumentare la loro trasparenza con rendicontazioni specifiche. Molti clienti hanno inoltre creato nuovi fondi per cercare società che investono in tecnologie correlate agli SDGs. Per quanto ci riguarda, noi riteniamo di non dover escludere a priori le società che non fanno rendicontazione, preferiamo verificare il tipo di attività da loro svolta e le modalità in cui operano».

In relazione ai tre temi Ambiente, Social e Governance, non si è forse fin qui dato troppo spazio al solo ambiente?

Risponde Cimbri: «Tutto sommato credo sia giusto così per quanto riguarda la governance, perché la libertà d’impresa non passa attraverso un proliferare di regole. Più carichi un’impresa di regole e obblighi e più rischi di creare problemi e di affossare, soprattutto, le piccole, che non sempre hanno gli strumenti adatti a rispondere alle numerose richieste. Trovo invece interessante cercare di intervenire per indirizzare i flussi finanziari verso un impatto sociale sostenibile. Senza una spinta è difficile che questo si verifichi, per cui mi sembra giusto farlo. L’importante è che le regole fissate siano valide per tutti, come in ogni altro settore, a livello globale. Se no diventa troppo difficile competere sui vari mercati».

In Europa vengono investiti 30mila miliardi su società che sostengono progetti sostenibili. Il nostro continente sta facendo da traino…

Risponde Cipolletta: «Sì, in Europa si registra un sentimento molto favorevole a politiche di questo tipo. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un’Europa pulita, che sia patria di discorsi virtuosi. È una sfida forte, per vincerla ci vuole l’apporto di tutti i Paesi anche se, volendo sottolineare un aspetto non del tutto positivo, non mi sembra che tutti in questo momento mettano in campo il medesimo coraggio».

Avete la sensazione di operare in un contesto condiviso, o di operare da soli, secondo le vostre specifiche inclinazioni aziedali?

Risponde Cimbri: «Parlare di contesto forse è esagerato, non si è ancora costituito un movimento corale vero e proprio, in campo per ora ci sono sensibilità diverse. Quello che manca, al momento è un concetto condiviso di misurabilità, oggi gli standard di misurazione sono molteplici. La trasparenza è importante: chi mi dice che certi criteri sono effettivamente rispettati da tutti? Serve dunque una standardizzazione dei criteri di analisi, solo la certezza può canalizzare gli investimenti. L’aspetto positivo è che oggi le persone sono molto più attente, soprattutto quelle giovani, e sono molto determinate a investire solo su aziende che operano in maniera eticamente sostenibile. Questo è importante».

(Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 12 (anno 4 n. 3) Luglio 2019

La campagna elettorale e quel silenzio assordante

In evidenzaLa campagna elettorale e quel silenzio assordante

La lunga campagna elettorale che ha portato alle elezioni amministrative del 4 marzo 2018 è stata una vera Waterloo per la sostenibilità.

Parliamoci chiaro: nei due mesi che hanno preceduto l’andata alle urne abbiamo sentito parlare di tutto. Di tasse che non pagheremo più, di soldi che ci verranno dati in più, di nuovi posti di lavoro, di pensioni raggiungibili prima. Di condoni, espliciti o mascherati. Di città pulite, inquinamenti scomparsi, strade asfaltate e lisce come tavoli da biliardo.

Si è parlato di onestà, di sicurezza, di amore per la patria, di difesa del territorio e anche (purtroppo) di razze supposte superiori.

Ci sono state promesse un sacco di cose, nei giorni precedenti le elezioni, che se se ne avverasse anche solo un quarto la nostra vita sarebbe destinata a diventare fantastica.

Ma c’è un argomento su cui non si sono spese tante parole, in tutti questi giorni di battaglie verbali. Non abbiamo sentito quasi nessun politico – né quelli di prima fascia, veri personaggi televisivi, né gli ultimi arrivati, che vanno alla ricerca di voti nelle retrovie – pronunciare con la dovuta continuità le parole “sostenibilità” o “responsabilità sociale d’impresa”.

Nessuno l’ha fatto. Nei talk show televisivi, questo abbiamo potuto provarlo personalmente, ma probabilmente nemmeno sui palchi delle feste della salamella organizzate sotto i tendoni dei piccoli paesi di provincia.

Noi, che queste parole le mastichiamo un giorno sì e un giorno no, siamo rimasti molto sorpresi da questo vuoto. Un silenzio assordante, abbiamo pensato, che ci fa tornare indietro di decenni, quando concetti come questi erano sconosciuti.

«Ma come – ci siamo detti – tutti parlano di CSR ormai da anni. Tutti sanno che cosa sia e quale sia l’importanza di un concetto come quello della sostenibilità. Tutti hanno ormai capito che le aziende non possono pensare a creare solo introiti economici, ma devono anche avere obiettivi legati al miglioramento della qualità di vita della collettività in cui sono inserite…».

E ci siamo arrabbiati: «Possibile che i nostri politici e aspiranti politici siano così arretrati, non al passo con i tempi? Che non si rendano conto del fatto che l’interesse al sociale da parte delle imprese e del mondo in generale è ormai un punto fermo da cui non si può più prescindere, che non può più essere trascurato?».

Sì, ci siamo arrabbiati. Ma l’arrabbiatura è durata poco e si è trasformata presto in sconforto perché subito dopo ci è nato in testa questo brutto pensiero: «Alle spalle dei politici, soprattutto dei “Numeri Uno” dei vari partiti, ci sono fior di uffici stampa, esperti in comunicazione, agenzie che lavorano in questo settore da secoli. Gente che sa benissimo quali tasti toccare, quali sensazioni risvegliare, quali argomenti trattare per attrarre l’attenzione e, soprattutto, i voti della gente… Se non hanno ritenuto di dover affrontare discorsi di questo tipo è forse perché li hanno ritenuti secondari, di poco interesse per gli italiani in generale».

E allora, con tristezza e preoccupazione, non abbiamo potuto fare a meno di chiederci: «Non è che, dal punto di vista della sostenibilità e della CSR, in Italia siamo davvero indietro di decenni?».

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 6 (anno 3 n.2) marzo 2018

Amministrative di Sondrio 1998. Pini: «Un sindaco a tempo pieno»

In evidenzaAmministrative di Sondrio 1998. Pini: «Un sindaco a tempo pieno»

Diego Pini, candidato di Forza Italia, Alleanza Nazionale e Centro Cristiano Democratico: «Il Polo unito per riaffermare la centralità della politica».

Le tre forze del Polo delle Libertà – Forza Italia, Alleanza Nazionale e Centro Cristiano Democratico – hanno deciso di presentarsi alle prossime elezioni sondriesi con un unico candidato sindaco, Diego Pini, e un unico programma. Una scelta per riaffermare la centralità della politica anche a livello locale, volta a denunciare «…l’anomalia di una sinistra che si nasconde dietro la foglia di fico di un simbolo civico».

Per i responsabili del Polo, Sondrio deve avere un sindaco a tempo pieno. La città non può essere amministrata part-time, «né si può pensare di delegarne il governo a una segreteria partitica». Sondrio – sostengono i rappresentanti delle tre liste – ha perso il suo ruolo di capoluogo. Bisogna pensare a una città che ospita e, nel contempo, produce, che diventi il centro di una serie di raccordi funzionali e sinergici con i Comuni limitrofi. Pini e i suoi, impegnandosi a modificare la situazione attuale, ritengono che i cittadini «al di là delle pacche sulle spalle», non siano mai stati coinvolti veramente nelle scelte amministrative. Il personale comunale, poi, va valorizzato attraverso il dialogo e la considerazione delle singole professionalità.

Risorse economiche

Vanno gestite al meglio e aumentate attraverso una buona amministrazione che sfrutti le opportunità che le altre istituzioni offrono.

Scuola

Il Comune deve interessarsi degli aspetti strutturali, oltre che di quelli educativo-didattici, dell’asilo nido e delle scuole materna, elementare e media, attraverso un’oculata politica di sostegno. Per le scuole dell’infanzia il Polo riafferma l’intenzione di garantire un’effettiva parità tra scuole statali e autonome. Per quanto riguarda lo studio universitario il Comune di Sondrio deve «essere promotore di un’iniziativa che coinvolga altri Comuni ed Enti Locali per la realizzazione di un College Universitario per i giovani».

Cultura

Il Polo si propone di stimolare le iniziative delle associazioni culturali che operano nell’ambito sondriese, sia attraverso l’erogazione di contributi, sia con una metodica diffusione informativa. È necessario creare nuovi spazi culturali; si pensa, tra l’altro, alla realizzazione della “Casa della Musica”.

Territorio

Sondrio deve programmare il futuro abitativo dei suoi cittadini in collaborazione con i Comuni limitrofi, con un Piano Regolatore Intercomunale. Da sviluppare, poi, una serie di interventi: dalla salvaguardia del territorio coltivato, al miglioramento dell’ambiente agricolo; dal razionale utilizzo del patrimonio idrico, alla riduzione delle immissioni di sostanze inquinanti nell’aria, nell’acqua e nel suolo, sia in centro sia nelle frazioni.

Sport

Il Polo contesta la scelta di Molteni di abbattere una palestra per costruire un’inadeguata piscina. Servono alla città: un impianto riservato alle attività ginnastiche, un campo da calcio presso il Campus scolastico, uno di allenamento alla “Castellina” e uno nei pressi del quartiere sud-est.

Frazioni

Bisogna operare per il miglioramento della qualità della vita nelle frazioni, migliorando i collegamenti con la città e le infrastrutture di servizio.

Formazione professionale

È necessario recuperare un progetto complessivo di formazione, da proporre alla Regione, che miri alla creazione di professionalità elevate e nei vari settori dell’economia provinciale. Senza gestori preparati non si può che perdere competitività, occasioni di sviluppo e, quindi, occupazione.

Azienda Sondriese Multiservizi

L’A.S.M. deve essere trasformata in SpA inizialmente pubblica e successivamente mista con il privato. Il servizio offerto dovrà rispondere a esigenze di efficenza, efficacia ed economicità.

Lavoro e occupazione

Bisogna generare le condizioni ottimali per l’insediamento e la crescita delle imprese, coinvolgendo i Comuni della cintura; bisogna adeguare le strutture esistenti alle nuove logiche di prestazione dei servizi. Aree attrezzate, collegamenti efficienti, tecnologie avanzate, promozione della produzione, rilancio dei mestieri tradizionali: questi devono essere i punti fermi dell’operare dell’amministrazione.

Servizi alla persona e servizi sociali

Devono essere gestiti rispettando la centralità della persona, favorendo la permanenza a domicilio. Bisogna migliorare le prestazioni e diversificare le offerte. Per disabili e portatori di handicap fisico e psichico dovrà essere posta attenzione all’assegnazione di alloggi popolari, all’abbattimento delle barriere architettoniche, alla predisposizione di trasporti pubblici adeguati.

Piano urbano del traffico

Il Piano, sostengono gli uomini del Polo, è ricco di scelte errate, va rivisto. Sì ai sottopassi del Campus e di via Nani e a un circuito ciclabile vero. Il problema parcheggi va risolto con la costruzione di parcheggi sotterranei in piazza Garibaldi e presso l’ospedale.

Diego Pini

  • Nato a Ponte in Valtellina il 10 maggio 1946
  • Liste di sostegno: Forza Italia, Alleanza Nazionale, Centro Cristiano Democratico
  • Capogruppo di Alleanza Nazionale presso il Comune di Sondrio
  • Presidente della Sondrio Sportiva
  • Allenatore della squadra di basket Rigamonti Sondrio
  • Ideatore e organizzatore del “Valtellina Basket Circuit”.

(articolo pubblicato domenica 15 novembre 1998 sul settimanale “Centrovalle”)

Il rispetto per i dipendenti, primo indicatore di sostenibilità

Il rispetto per i dipendenti, primo indicatore di sostenibilità

C’è un modo veloce e sicuro per capire se un’azienda crede veramente nei principi della sostenibilità. È un sistema che può essere applicato a qualsiasi tipologia di impresa, dalla più grande, quella con centinaia o migliaia di dipendenti, alla più piccola, come il minuto negozio a conduzione quasi famigliare.

Per comprendere la sincerità di chi sostiene di fare sostenibilità è sufficiente guardare come le persone vengono trattate nell’ambito aziendale. Non stiamo parlando dei clienti, con quelli si può decidere di essere gentili e sensibili per questioni di opportunità, ma dei dipendenti, le persone che in quella realtà lavorano e trascorrono numerose ore della giornata al servizio dell’azienda.

Il termine “persone” non è usato a caso. Spesso, troppo spesso, i lavoratori quando esercitano le loro mansioni all’interno della realtà lavorativa vengono privati della loro personalità, ancora oggi, pur dopo decenni, anzi secoli di lotte per i diritti. Spesso, troppo spesso, appena varcata la soglia del luogo di lavoro avviene qualcosa di imperscrutabile che fa sì che “umani”– che al di fuori di quelle mura hanno una loro vita, una loro personalità, famiglia, questioni da risolvere, gioie, dolori, emozioni, ecc. – diventino una piccola ruota di un ingranaggio che tutto divora e rende impersonale in nome della supposta produttività.

Ci sono molti modi per trattare “male” un dipendente, qualsiasi sia il suo livello professionale. Lo si può schiavizzare, chiedendo sforzi sovrumani protratti per tempi lunghissimi nell’arco della giornata, della settimana, dell’anno; lo si può mobbizzare, relegandolo a mansioni inadeguate alla sua preparazione; lo si può utilizzare per anni senza offrirgli la minima speranza di crescere all’interno dell’azienda; lo si può discriminare per questioni legate al sesso, alla religione, al colore della pelle, all’orientamento sessuale; lo si può pagare meno di quello che vale o in modo non adeguato rispetto allo sforzo profuso. Lo si può, insomma, trattare come se non fosse una persona in carne e ossa, con un suo cuore e un suo cervello.

A poco vale elargire donazioni in giro per il mondo, organizzare iniziative benefiche, parlare di grandi impegni profusi per sostenere nobili cause, se poi all’interno dell’azienda chi la sostiene, la rappresenta e ogni giorno con il proprio sudore la tiene attiva, non viene considerato come dovrebbe.

Facile immaginare, a questo punto, i sorrisetti: «È il mondo del lavoro, bellezza…, se sei debole è ovvio che non avrai spazio. Il successo è di chi lo sa cogliere con volontà e determinazione». Vero, forse. Ma non è una questione, questa, di “machismo”, di capacità di sopportazione, di abilità e intelligenza applicate alla dura lotta quotidiana. Troppo facile derubricarla in questo modo.

Qui si parla della cultura del rispetto per le persone, quella che troppo spesso manca nei luoghi di lavoro.

Nei bilanci sociali delle aziende, alla voce “dipendenti”, accanto ai benefit, alle iniziative, alle feste organizzate per i figli e ai panettoni regalati a Natale ci dovrebbe essere anche questa voce: “Grado di rispetto per le persone”, un indicatore prezioso dell’essere davvero sostenibili.

Perché ci si crede, non perché conviene.

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Pubblicato sul magazine CSROggi n. 20 (anno 6 n. 2) marzo-aprile 2021