È possibile vivere senza l’automobile di proprietà?

In evidenzaÈ possibile vivere senza l’automobile di proprietà?

Mentre a Berlino si sta pensando di mettere in atto un piano che prevede una grande area ubana libera dal traffico di auto private destinata a diventare la più vasta al mondo – 88 chilometri quadrati, la metà della superficie dell’intera città di Milano –, e mentre le cronache più attente esaltano l’esperienza di Pontevedra, città spagnola di 80mila abitanti nota per essere la “città senza macchine” grazie alla pedonalizzazione del centro storico ma anche di molti quartieri esterni, vogliamo qui raccontare brevemente l’esperienza di chi ha scelto di vivere senza automobile.

La scelta

Per 4 anni una famiglia di Milano composta da 4 persone – padre, madre e due figli adolescenti – ha fatto a meno della macchina.

La decisione, nello specifico, è stata: addio all’auto di proprietà e via libera all’utilizzo di auto in car sharing o a noleggio nei casi di bisogno: trasferte cittadine da dover fare assolutamente in auto – ad esempio nel caso di trasporto di oggetti ingombranti o pesanti – e trasferte “fuori porta” come quelle delle vacanze estive o quelle delle gite nel fine settimana. Una scelta certo più facile da attuare in un contesto urbano, dove – in aggiunta al car sharing – si possono avere a disposizione soluzioni alternative efficienti come trasporti pubblici e piste ciclabili. Più difficile da attuare in piccole cittadine, paesi o addirittura agglomerati di poche case in montagna o in campagna.

I motivi

I motivi della scelta sono molti: desiderio di non avere più vincoli amministrativi come bollli, assicurazioni, revisioni, ecc.; desiderio di non trovarsi più bloccati nel traffico; desiderio di non dover più cercare parcheggio nelle vie sotto casa; desiderio di “liberare uno spazio” in città; desiderio di non inquinare l’aria; desiderio di non subire più danni da vandalismi, grandinate, “disattenzioni” degli altri automobilisti…-

Aspetti positivi

Da una parte grande serenità e consapevolezza di attuare una scelta positiva per sé e per i propri cari ma anche per l’intera comunità, nella certezza che senza auto, o comunque con le auto ridotte all’essenziale, le città sarebbero più belle, vivibili, green e sostenibili.

“Scoperta” della bicicletta come mezzo principale degli spostamenti cittadini, ma anche le camminate non vengono disdegnate, con beneficio anche per la salute del proprio corpo.

Riscoperta dell’uso del treno, con tutto quello che ne consegue: minor rischio di incidenti, maggiore rilassatezza dei viaggiatori – in particolare del guidatore – con possibilità di dormire, leggere, chiacchierare senza nervosismi provocati dalla troppa velocità o dalla troppa lentezza vissuta negli spostamenti in auto.

È una scelta che rende orgoglioso chi la attua, che viene guardato con curiosità e un certo rispetto dalle altre persone che, in cuor loro, tendono comunque a pensare: «Io non ce la potrei fare…».

Difficoltà

La scelta comporta alcuni problemi di organizzazione interna ed esterna alla famiglia. Ci sono situazioni che sono “scoperte” e non risolvibili con le auto pubbliche.

Il car sharing è ancora troppo poco diffuso, spesso è difficile, se non impossibile, trovare auto a disposizione. È un problema anche di distribuzione dei veicoli sul territorio cittadino: in alcune ore della giornata, soprattutto mattina e sera, questi tendono a concentrarsi in alcuni quartieri – del centro o della periferia – e sono spesso assenti su altri.

C’è un problema, inoltre, per quanto riguarda le trasferte di medio raggio. Un esempio pratico: la trasferta del figlio che gioca a basket o della figlia che gioca a pallavolo, che devono essere portati, in un orario serale, in una città dell’hinterland. Troppo lontano per il car sharing e utilizzo troppo “breve” per pensare di procedere con tutte le pratiche – spesso lunghe e macchinose da espletare – relative al noleggio. Impossibilità di recarsi nella palestra in oggetto in bicicletta, coi mezzi pubblici e con il treno. Risultato: o il figlio va con altri genitori o resta a casa. Soluzione che può essere attuata forse una, due volte, dopo di che è facile supporre che il pensiero che tende a sorgere nella testa dei genitori ospitanti – è ovvio e anche più che normale – sia «bello fare gli splendidi con le auto degli altri!».

Morale finale

Con il passare del tempo diventa sempre più difficile sostenere la posizione all’interno della famiglia. Anche le trasferte nei grandi centri commerciali ai confini della città – come quelli che vendono mobili, per fare un esempio – sono praticamente precluse, e questo si può immaginare quanto pesi sulla serenità familiare… Aumentando le pressioni, si è portati a un certo punto a dire; vabbè, prendiamo una macchina piccola, da usare per i piccoli-medi spostamenti. Ma questo è il primo passo verso il cedimento, perché il pensiero successivo è: sì, ma che senso ha avere un’auto che non puoi usare tutti e quattro con una certa comodità e, nel caso dovesse servire, anche potendo trasportare bagagli proporzionati? A questo punto prendiamo un’auto un po’ più grande, magari stiamo attenti che consumi e inquini poco (elettrica? No, costa troppo e poi dove la ricarichi? Il garage non ce l’abbiamo e la colonnina più vicina è a più di un chilometro da casa…).

E così in un attimo rischi di ritrovarti di nuovo a dover girare mezz’ora la sera alla ricerca di un parcheggio, sapendo che domani dovrai portare l’auto dal meccanico a fare il tagliando e ricordandoti improvvisamente che la prossima settimana ci sarà l’assicurazione da rinnovare…

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 22 (anno 6 n. 4) settembre-ottobre 2021

Local, smart, green e inclusive, ecco come saranno in futuro le nostre città

In evidenzaLocal, smart, green e inclusive, ecco come saranno in futuro le nostre città

Barbara Cominelli, CEO di JLL Italia: «C’è, oggi, una grande accelerazione sul ripensamento delle città. Si pensa ad agglomerati urbani con tanti poli, in cui tutto sia a portata di mano, a misura d’uomo e raggiungibile in poco tempo – il cosiddetto modello di “città dei 15 minuti” – in un’ottica di mobilità un po’ più sostenibile e di creazione di ecosistemi di innovazione e di inclusione».

JLL è tra le principali realtà mondiali operanti nel settore del real estate. Un settore che sempre più viene considerato strategico per una crescita sostenibile e green delle nostre città.

Dalla qualità dei nostri edifici – per abitazioni, uffici, centri commerciali, aziende, ecc. – dipende anche la qualità della nostra vita, questo è un concetto che oggi è con prepotenza entrato nel nostro comune sentire. E non stiamo parlando di bruscolini: il real estate è un settore che in Italia vale più o meno il 20% del PIL, che genera – purtroppo – il 39% delle emissioni e consuma il 40% dell’energia. Non c’è dubbio che tutto l’ecosistema del costruito/costruisco/utilizzo/dismetto è senza dubbio molto inquinante.

Ne parliamo con Barbara Cominelli, CEO di JLL Italia, da sempre sensibile alle trasformazioni che possono essere ottenute con la tecnologia ma soprattutto con la sostenibilità, sia ambientale sia legata alla creazione di capitale.

Dottoressa Cominelli, che cosa si può, anzi si deve fare per rendere meno “impattanti” i nostri palazzi?

«Possiamo cominciare con il dire che se guardiamo lo stock immobiliare europeo, scopriamo che più o meno il 75% degli edifici complessivi – in Italia va un po’ peggio, siamo all’84% – ha una classificazione energetica di grado molto basso, inferiore a D. I Paesi in condizioni migliori sono quelli dell’Est europeo, che in conseguenza dei cambiamenti vissuti negli ultimi decenni godono di uno stock più nuovo. Ma non dobbiamo pensare che valga sempre l’equazione nuovo/sostenibile, perché utilizzare nuovo territorio non è di certo la soluzione migliore. L’obiettivo deve piuttosto essere quello di fare un passo deciso verso una riqualificazione green del nostro patrimonio immobiliare. In questa direzione va proprio l’European Green Deal, che ha tra gli obiettivi l’abbattimento delle emissioni degli immobili del 60%».

Il cambiamento dovrà riguardare i nuclei abitativi nel loro complesso, in particolar modo le città…

«Questo è un tema centrale. È fondamentale reimpostare la struttura delle città, approfittando anche del momento in cui si potrà finalmente parlare di post-covid. C’è, oggi, una grande accelerazione sul ripensamento delle città, che porterà ad avere centri abitati molto più policentrici, in cui non ci sarà, come oggi, un solo “centro” dove tutti la mattina si recano per lavorare per poi tornare verso l’esterno per vivere e dormire. Si pensa a città con tanti poli, in cui tutto sia a portata di mano, a misura d’uomo e raggiungibile in poco tempo – il cosiddetto modello di “città dei 15 minuti” – in un’ottica di mobilità un po’ più sostenibile e di creazione di ecosistemi di innovazione e di inclusione».

La parola d’ordine sembra essere “rigenerazione”. È davvero così?

«È assolutamente un tema di grande valore, che ti permette di ottenere buoni risultati economici, se sei un investitore o sei un’azienda che vuole inserirsi in un progetto di rigenerazione urbana, associati a ottimi risultati di inclusione sociale, perché aree che dal punto di vista sociale erano lasciate ai margini con questo nuovo modello di città si trovano a essere incluse. Ogni euro investito in rigenerazione ha un moltiplicatore molto importante in termini di ricaduta sul territorio, visto che ne “produce” tre. Il tema della rigenerazione a 360° riguarda anche l’obiettivo di far diventare la città più inclusiva, accessibile a tutti, anche agli studenti alle nuove coppie, a chi non ha grandi disponibilità. Per questo si parla di social housing: concetto virtuoso che per essere raggiunto richiede molto lavoro e attenzione alle esigenze di tutti. C’è tutto il tema dello student housing, ma anche quello del senior housing, sempre più pressante visto l’invecchiamento progressivo della popolazione, in particolare quella del nostro Paese».

Quanto e come influirà sul sistema del real estate l’avvento del Covid con tutto il suo corredo di smart-working e aumento degli acquisti da remoto?

«Il Covid ha accelerato un ripensamento collettivo che era già in atto per ripensare come viviamo, lavoriamo, studiamo, passiamo il nostro tempo libero all’interno delle nostre realtà cittadine. Lo smart-work favorisce questa visione della città a 15 minuti, perché se a pochi minuti da casa mia ho tutti i servizi essenziali di cui ho bisogno, è chiaro che il dover rimanere a lavorare in casa non è un aspetto negativo, anzi, può migliorare il mio senso di benessere generale».

Nella vostra visione si parla spesso di “città”, come se il futuro dovesse risolversi soprattutto in quei contesti…

«Le indicazioni che abbiamo parlano chiaro: già fin dal prossimo futuro le città sono destinate a crescere. Il trend è sempre più quello della urbanizzazione: attualmente si calcola che nelle città viva il 55% della popolazione mondiale, percentuale destinata a salire, entro il 2050, al 70%. Questo significa che ci saranno più di 2 miliardi di persone che dovranno trovare spazio nelle città e la nostra preoccupazione deve essere quella di renderle più accoglienti per tutti e non solo per poche élite».

Non sempre lo sviluppo dei quartieri va di pari passo con i buoni propositi iniziali. Qual è la ricetta perché tutto funzioni al meglio?

«È fondamentale che ci sia una buona alleanza pubblico/privato. Se tutto viene predisposto in modo corretto e durevole, poi le aziende arrivano, il residenziale prende possesso del quartiere e si viene a creare un circolo virtuoso che permette al nuovo quartiere – o al quartiere rigenerato – di “decollare”. Ma gli investitori senza il supporto e la visione del “pubblico” da soli non ce la possono fare».

In Italia si verifica questa alleanza pubblico/privato?

«L’alleanza tra pubblico, privato è un aspetto fondamentale. Se sei un privato, un investitore, la cosa che ti fa più paura è l’incertezza. Se sai di avere un interlocutore con cui dialogare – soprattutto nel settore immobiliare che richiede un pensiero di medio-lungo termine – sei molto più tranquillo. Bisogna sottolineare che nel nostro Paese le amministrazioni si stanno sempre più impegnando per creare connessioni, portare mobilità e servizi nelle parti di città interessate da rigenerazione. Spesso viene richiesto al privato di assegnare una parte dello sviluppo progettuale all’edilizia sociale, in modo che non ci sia spazio solo per uffici o per case per ricchi. Bisogna dare l’opportunità a tutti di poter vivere in ambienti organizzati e sostenibili. Questo è anche quello che richiedono le grandi aziende, che vincolano la scelta delle proprie sedi alla presenza di talento, di capitale umano, elemento considerato tanto importante quanto quello delle infrastrutture, del regime fiscale e delle opportunità prestate dagli strumenti software. Ed è chiaro che le città avranno un migliore futuro se sapranno crescere in termini sostenibili attirando talenti e creando vivacità, dinamismo».

Qual è l’impegno diretto e fattivo di JLL nei confronti di questa auspicata trasformazione sostenibile del comparto del Real estate?

«Siamo completamente dentro questa trasformazione, ogni giorno parliamo di questi temi e aiutiamo i nostri clienti a operare scelte finalizzate a raggiungere questo obiettivo. Per quanto ci riguarda, come azienda abbiamo firmato il “Climate Pledge” e ci siamo impegnati a essere net zero entro il 2040. Ed entro il 2030 saremo carbon neutral su tutto quello che riguarda i nostri edifici e le nostre attività. Ma la nostra grande sfida è quella di arrivare al 2040 net zero anche su tutte le attività che gestiamo per i nostri clienti, per questo operiamo senza tregua nel sensibilizzarli su questi temi».

Come avviene la vostra condivisione della sostenibilità con i vostri clienti e stakeholder?

«Abbiamo intervistato vari nostri clienti, sia lato investitori sia lato grandi aziende, e buona parte di loro ci ha rivelato che sta iniziando a sviluppare piani per cui è fondamentale il link tra corporate real estate e sostenibilità a livello di board. Nel mondo degli edifici i punti decisivi da questo punto di vista sono due: ridurre la produzione in termini di emissioni nel momento in cui costruisco il building e ridurla durante il suo utilizzo. C’è molto fermento su tutto ciò che è collegato a questi due momenti: come costruisco, come ci vivo, quale design utilizzo, come riciclo. E quanto suolo nuovo consumo: quando si parla di “rigenerazione” la cosa peggiore sarebbe costruire nuove città andando a consumare suolo nuovo e non riutilizzando quello già occupato. Un altro tema importante è quello del riciclo, della circolarità, che è sempre più fondamentale in come progettiamo gli edifici e in come li utilizziamo. Dobbiamo arrivare, in generale, a un modello dei nostri edifici molto più inclusivo, oggi purtroppo non è sempre così».

L’inclusione, un altro punto su cui vale la pena soffermarsi…

«Sì, l’inclusione è un tema che ci sta molto a cuore. L’immobile deve essere anzitutto accessibile, non deve avere barriere architettoniche. Una scelta che non deve essere fatta solo per rispettare le disposizioni di legge. Il pensiero che si deve affermare è ”rendo accessibile a tutti uno spazio by design”. Cioè: non costruisco una scala normale e poi di fianco ci metto una rampa per chi non è in grado di utilizzare la scala, costruisco direttamente una rampa che venga utilizzata da tutti. Il punto è dunque quello di disegnare spazi che siano “nativamente” inclusivi. Il tema dell’accessibilità è oviamente legato alle persone disabili, agli anziani, ai genitori con bambini piccoli ma può riguardare tutti noi in qualsiasi momento della vita».

Riassumendo, dottoressa Cominelli, come sarà, anzi come dovrà essere la città del futuro per essere davvero sostenibile?

«Più che di “città del futuro”, mi piace parlare di “città rigenerate”. Saranno sicuramente locali – nel senso detto prima – ma anche fortemente integrate in circuiti di innovazione quanto più ampi possibili, direi a livello europeo. Quindi: da una parte localizzazione dei consumi, nell’utilizzo dei servizi, dall’altra una forte integrazione con gli altri hub dell’innovazione. Saranno città più smart e tecnologiche. La tecnologia è ancor oggi piuttosto sottoutilizzata e questo è un peccato perché rappresenta il driver principale per far fare un salto anche green agli agglomerati urbani che ci ospitano. Local, smart, green e inclusiva, in futuro la città dovrà riuscire a essere così».

WELCOME

L’ufficio biofilico del futuro, in cui lavoro e natura dialogano armonicamente, in un’architettura organica e orizzontale in ascolto del contesto che la ospita. Su questa base nasce il visionario progetto voluto dalla piattaforma indipendente Europa Risorse, che già prima della pandemia aveva intuito la necessità di dare vita a uno spazio di lavoro a misura d’uomo, nel completo rispetto della natura e perfettamente integrato e modellato nell’ambiente. L’imponente cantiere di Welcome, feeling at work, al via oggi a Milano nella zona del Parco Lambro, verrà completato nel 2024 e permetterà all’individuo di accedere ai più sofisticati requisiti tecnologici e digitali, ma anche a efficaci misure per proteggere le persone da future pandemie.

L’ambizioso progetto, finanziato da un fondo gestito da PineBridge Benson Elliot, vuole essere tra i più sostenibili mai realizzati e si pone come un passo avanti nell’architettura e nella concezione del lavoro, coniugando benessere della persona e rispetto dell’ambiente.

CITYWAVE

CityWave, così come l’intero intervento di CityLife a Milano, è un progetto di rigenerazione urbana sviluppato dal Gruppo Generali. È l’ultimo tassello del quartiere, una realizzazione che entra in perfetto dialogo con gli edifici già presenti a CityLife e che diventa il naturale completamento dell’area.

Un progetto innovativo e unico, a compimento di un impegno sul lato della sostenibilità che ha caratterizzato l’intero sviluppo del quartiere; ideato per raggiungere i più alti standard, si qualificherà come LEED Platinum. L’idea progettuale prevede due edifici collegati tra loro da una copertura sospesa – il “portico inverso” – che allarga lo spazio interno e lo proietta verso l’esterno favorendo un nuovo luogo di convivialità e incontro tra le persone, uno spazio pubblico ombreggiato e protetto, vivibile per gran parte dell’anno.

Sole, aria, acque piovane e di falda sono le fonti rinnovabili che alimentano un’avanzata strategia energetica. Grazie al rivestimento in pannelli fotovoltaici, la copertura che unisce i due edifici diventa il parco fotovoltaico più grande della città con una superficie di circa 11.000 m2, in grado di fornire una produzione di energia stimata in 1.200 MWh l’anno. La stessa copertura consente poi la raccolta e il riuso delle acque piovane, mentre le acque di falda sono destinate a un utilizzo termico.

Un progetto che contempla un cambiamento profondo anche nell’ideazione degli interni con ambienti di lavoro in cui sono previsti spazi inediti di connessione e collaborazione tra le persone.

COME CAMBIA LA VITA IN AZIENDA

Largo a donne, giovani e spazi per la socializzazione

Barbara Cominelli: «Sul ruolo delle donne all’interno di JLL stiamo lavorando tantissimo, è un tema che ci vede in prima linea. Riteniamo infatti di dover fare un salto di diversity, in primis di genere. L’azienda ha capito che l’assumere donne è una priorità che riguarda il suo stesso fare business, non è solo un’esigenza di facciata.

Cerchiamo tantissimi architetti, ingegneri, profili in cui il bacino femminile potenzialmente c’è, soprattutto in quello dell’architettura. La nostra capacità deve essere in generale quella di poter integrare nei nostri meccanismi operativi tutte le categorie di persone immaginabili: donne, uomini, giovani, chi ha famiglia, chi non ce l’ha, chi ha anziani da gestire, ecc. Ognuno con le sue caratteristiche e le sue esigenze, che vanno il più possibile valorizzate e rispettate.

E qui entriamo nel grande discorso della flessibilità, oggi più che mai attuale. L’obiettivo è individuare un modo per far sì che lo smart-working, questo modello di lavoro agile possa diventare un elemento di crescita per chi ha impegni familiari, in particolare le donne.

Dobbiamo far sì che queste politiche flessibili siano capaci di farci fare un vero salto strutturale Dobbiamo trovare il modo per fare sì che un dipendente possa lavorare da casa due-tre giorni alla settimana, in base alle decisioni, senza essere isolato dal resto del contesto e senza che venga penalizzato in modo tale da subire cambiamenti sul proprio stato professionale.

Abbiamo fatto delle ricerche al proposito e abbiamo scoperto che il 36% dei dipendenti che lavora da casa si sente privo di energia e fa fatica a rimanere motivato mentre il 36% fa fatica a mantenere relazio- ni personali al suo rientro in ufficio, si sente isolato. Il 75% ci dice che si aspetta che il datore di lavoro si occupi anche della sua salute men- tale, delle preoccupazioni o paure che possono sorgere in momenti particolari come quello che stiamo vivendo ai giorni nostri.

È un momento di grandi cambiamenti, come dimostrato dal fatto che il 41% delle persone dice: “mi sto guardando intorno per cambiare lavoro perché non mi sento supportato, a mio agio in questa azienda”. Se le aziende non fanno un salto in avanti in termini di capacità di dare un bilanciamento ai dipendenti, soprattutto a quelli più giovani, perderanno i talenti.

È un tema che riguarda anche il tipo di spazi in cui viviamo e lavoriamo. Mentre prima negli uffici gli spazi erano così distribuiti: 70% scrivanie per lavorare individualmente e 30% spazi di condivisione, palestra, asilo, ecc., adesso le percentuali sono quasi ribaltate. Si cercano sempre più nuovi spazi che aiutino ad aumentare la socializzazione, spazi per focalizzarsi, per connettersi con la natura, per imparare nuove attività rilassanti… i nuovi uffici saranno molto diversi da quelli vecchi, ci saranno molti più spazi per fare queste cose, perché poi molte attività professionali potranno essere svolte da casa, non servirà a tutti i costi essere fisicamente in un ufficio».

Pubblicato sul magazine CSROggi n. 22 (anno 6 n. 4) settembre-ottobre 2021

Momenti di Salone (della CSR e dell’Innovazione sociale 2019)

In evidenzaMomenti di Salone (della CSR e dell’Innovazione sociale 2019)

L’edizione del Salone della CSR e dell’Innovazione sociale 2019, la settima, ha registrato numeri d’eccezione: 6.000 visitatori, 400 relatori, 100 eventi, 216 organizzazioni coinvolte.

«Un elemento è emerso dagli incontri che si sono tenuti in questi due giorni – ha sottolineato Rossella Sobrero, Docente universitaria e Presidente di Koinètica, organizzatrice e anima del Salone –: la vera sostenibilità significa anche un nuovo modo di intendere la relazione con gli stakeholder e il valore dei brand viene collegato non più solo al capitale economico ma anche a quello umano, relazionale, ambientale. Anche per questo sono sempre di più le imprese che integrano la sostenibilità nei piani strategici: non per adeguarsi a leggi e regolamenti ma per dare risposte alle richieste di un mercato in rapida evoluzione».

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ROSSELLA SOBRERO

ALCUNE CONSIDERAZIONI POST SALONE DELLA CSR

Rossella Sobrero

Da tutti gli incontri del Salone è emerso che la vera sostenibilità è gestire in modo responsabile l’organizzazione modificando anche la relazione con gli stakeholder.

Al Salone hanno partecipato molte imprese che hanno integrato la sostenibilità nei piani strategici non per adeguarsi a leggi e regolamenti ma per dare risposte alle richieste di un mercato in rapida evoluzione.

Gli asset intangibili sono riconosciuti importanti non solo dagli stakeholder più attenti ai temi sociali e ambientali ma anche dagli investitori.

Il valore del brand viene sempre di più collegato a diversi capitali: oltre a quello economico anche a quello umano, relazionale, ambientale.

La collaborazione diventa importante: crescono le partnership, si sviluppano reti di organizzazioni sostenibili, migliora la capacità di fare networking tra i diversi attori del territorio.

Cambia il modo di comunicare: diventano prioritari valori quali trasparenza, coerenza, integrità, condivisione.

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SERGIO VAZZOLER

LA MOBILITAZIONE DEL MONDO GIOVANILE

Sergio Vazzoler

Alla fine dell’incontro dal titolo “Come comunicare l’ambiente ai tempi di Greta Thunberg” abbiamo intervistato uno dei partecipanti, Sergio Vazzoler, esperto di comunicazione ambientale e partner di Amapola – Talking Sustainility, società di consulenza specializzata nella comunicazione di sostenibilità.

Quali sono i vantaggi della grande esposizione dovuta al fenomeno Greta Thunberg?

«Il vantaggio, clamoroso, è la capacità di mobilitazione di un mondo, quello giovanile, che in questi ultimi 10 anni è rimasto silente sui grandi temi politico-sociali. Una capacità che non può essere offuscata dall’arroganza di noi adulti, che in qualche modo cerchiamo di sminuire l’intervento con l’accusa che ci sia, alla sua base, “troppo ideologia”. Ben venga questo movimento, perché le politiche dei governi e delle nazioni stanno dimostrando di non avere il passo giusto per raggiungere gli obiettivi che invece la scienza ci richiede. Greta è il messaggero perfetto per creare un movimento dal basso che spinga poi politica, istituzioni e imprese ad agire più in fretta».

E quali sono, invece, i rischi di questa sovraesposizione?

«Il primo rischio è che questo fenomeno, ormai divenuto di massa, spinga coloro che hanno le leve del potere a dire “sì, vai avanti” senza però che venga effettivamente messo a terra alcun provvedimento concreto. Il secondo rischio è che ci si fermi qui, mentre ora serve che si faccia un passo in più, che è quello di entrare nel merito delle questioni e di non penalizzare troppo le persone più deboli. Penso ad esempio che sia meglio usare gli incentivi per favorire mezzi ibridi ed elettrici piuttosto che utilizzare la leva della tassazione contro i combustibili più inquinanti. Il rischio è che quest’operazione venga vista come elitaria – bio che costa il doppio del prodotto di largo consumo, auto elettriche inaccessibili, ecc. – per cui si venga a creare un’antipatia verso il tema ambientale da parte di quelle fasce di popolazione che invece potrebbero beneficiarne maggiormente perché magari vivono in aree più a rischio di conseguenze impattanti».

Un commento sul salone 2019?

«Noi che ci siamo dal primo anno e abbiamo visto crescere il Salone, possiamo dire che in questa edizione si sono visti segnali evidenti di crescita di interesse per i temi trattati. Visto che bisogna sempre pensare a quello che verrà, per il prossimo anno butto lì l’idea di creare dei percorsi ad hoc per le piccole e medie imprese, in modo tale che possano trovare strumenti da utilizzare nella loro realtà senza spaventarsi di fronte a programmi molto ambiziosi di realtà grandi, che già da anni hanno sviluppato azioni mirate alla sostenibilità. Non dobbiamo perdere di vista il fatto che in Italia c’è un mondo economico ancora in sofferenza, è importante prestare attenzione a tutte quelle realtà che in futuro diventeranno strategiche per poter raggiungere gli obiettivi che tutti ci prefiggiamo».

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MATTEO PEDRINI

OGGI I NOSTRI INTERLOCUTORI NON SONO PIÙ DA CONVINCERE

Abbiamo incontrato Matteo Pedrini, professore associato Corporate Strategy dell’Università Cattolica di Milano, vice direttore di Altis e direttore scientifico del CSR Manager network, alla fine dell’incontro “Tecnologia, innovazione, sostenibilità” che l’ha visto tra i protagonisti.

Matteo Pedrini

Trova qualcosa di diverso in questo Salone CSR, rispetto a quello degli scorsi anni?

«Noto come la presenza dei giovani sia sempre in crescita, il loro interesse sull’argomento sostenibilità è sempre più evidente e molti di loro cominciano a pensare a una loro futura professione legata a questi temi».
Di sostenibilità si parla oggi sempre più, anche se spesso collegata al clima e all’ambiente. Come giudica questo fatto? Positivamente o negativamente?
«Penso che lasciarci trasportare dagli aspetti ambientali sia ottimo perché ci si preoccupa di apportare cambiamenti significativi per l’uomo. Penso però anche che sia necessario prestare attenzione anche agli aspetti più sociali e, magari con meno eco, questo viene fatto da molte realtà. Come Altis sono anni che lavoriamo su temi legati alla sostenibilità e quindi oggi siamo molto soddisfatti perché cominciamo ad avere interlocutori che non sono più da convincere. Oggi i CSR manager hanno conoscenze e competenze molto interessanti per le aziende. Fino a qualche anno fa i vertici aziendali erano piuttosto scettici su questi temi, ora si sono convinti della loro validità».

Questo avviene di sicuro nelle grandi aziende, mentre nelle PMI sembra esserci una maggiore fatica a comprenderne le modalità d’approccio. È davvero così?

«Non sono del tutto d’accordo. Tutto quello che vediamo nelle grandi aziende, nelle PMI ha una forma diversa. Qui spesso si parla di una conduzione famigliare, con risorse diverse, per cui attuare la sostenibilità in una piccola azienda potrebbe voler dire procedere con investimenti al di sopra delle proprie capacità. Nonostante questo, però molto viene oggi fatto, anche se spesso non viene comunicato, sappiamo di azioni straordinarie messe in campo di piccole aziende di cui però la maggior parte delle persone non sa niente, un po’ per mancanza di cultura della comunicazione delle piccole aziende».

Quanto la tecnologia può aiutare la sostenibilità?

«La tecnologia di per sé non vuol dire niente, dipende dall’applicazione che se ne fa. Se ben interpretata è di sicuro un fattore abilitante e un potente acceleratore della sostenibilità».

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FRANCESCA SILVA

IN BURKINA FASO, CONTRO LO SFRUTTAMENTO DEL LAVORO MINORILE

Francesca Silva, Direttrice operativa di CIAI, Centro Italiano Aiuti all’Infanzia, al Salone 2019 ha presentato un’app che consentirà il riconoscimento facciale degli alunni delle scuole e del Burkina Faso.

Francesca Silva

Di che cosa si occupa CIAI?

«CIAI è un’organizzazione non governativa che nasce nel 1968 da un gruppo di famiglie e che si occupa a 360 gradi di infanzia. Il nostro motto è “Ogni bambino è come un figlio” e quindi ci prendiamo cura di tutti i bambini come se fossero nostri figli».

Che cosa avete raccontato al Salone?

«Abbiamo raccontato un’esperienza che parte proprio in questi giorni perché oggi è il primo giorno di scuola in Burkina Faso. Si tratta di un’App che consente di rilevare attraverso il riconoscimento facciale, le presenze dei bambini nelle classi dei villaggi rurali in Burkina Faso e di categorizzare quanti sono maschi e quante sono femmine. Questo processo, che opera attraverso l’utilizzo delle reti neurali artificiali, ci consentirà di monitorare sia gli accesi alla scuola, sia gli eventuali abbandoni scolastici. Questo è un problema molto diffuso in Burkina Faso, dove quasi il 41% dei bimbi tra i 5 e i 17 anni lavora e di conseguenza questo comporta importanti tassi di abbandono scolastico. Il nostro intento è quello di agire su questo tema attraverso l’innovazione tecnologica, utile perché ci consente di rilevare anche il dato di genere. Non è un punto da sottovalutare perché di solito le bimbe sono quelle che con meno frequenza accedono all’istruzione e che più facilmente abbandonano il percorso scolastico».

A quale livello avete raggiunto accordi in Burkina Faso?

«Questo progetto oggi parte in 10 scuole di 10 municipalità, quindi collaboriamo con le istituzioni locali di riferimento. Anche perché l’idea è quella di riuscire a portare i risultati di questo progetto anche a livello più alto, nazionale, con l’obiettivo che il Ministero dell’istruzione del Burkina Faso possa fare suo questo strumento e diffonderlo a livello nazionale».

Da dove nasce l’idea di sviluppare il vostro progetto proprio in Burkina Faso?

«CIAI lavora in questo Paese fin dal 1995, sempre con particolare attenzione al tema dell’istruzione, sia in ottica di favorire l’accesso, sia in quella di favorire la qualità dell’istruzione. In questi territori, in particolare, abbiamo lavorato negli ultimi anni proprio dal punto di vista di istruire le scuole e formare gli insegnanti e oggi vogliamo fronteggiare questo fenomeno importante che è quello di favorire l’accesso dei bambini soprattutto in un’ottica di combattere lo sfruttamento del lavoro minorile».

Un progetto che potrebbe essere esportato in altri Paesi…

«Assolutamente sì, lo strumento, la sua tecnologia è assolutamente esportabile. Le condizioni proprie del Burkina Faso, dove ci sono villaggi rurali con classi sovraffollate di oltre 50 bambini, si ritrovano in molte altre realtà del mondo, quindi potenzialmente il progetto è esportabile».

Un’impressione sul Salone 2019?

«Sono rimasta molto colpita dalla partecipazione, sia a livello generale del Salone sia per quanto riguarda i singoli momenti. Molto interessante è la possibilità di scambio che si viene a creare tra le varie esperienze. Noi abbiamo avuto la possibilità di presentare la nostra App, che potrà in futuro essere messa a disposizione di altre organizzazioni come la nostra facendo nascere collaborazioni virtuose».

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GLI AMBASCIATORI DELLA SOSTENIBILITÀ

Tra le iniziative del Salone 2019 spicca la raccolta di adesioni all’iniziativa
“Gli ambasciatori della sostenibilità” che prevede l’assunzione da parte dei firmatari di alcuni impegni concreti e realizzabili ispirati ai 17 goals dell’Agenda 2030.

Nell’ambito del Salone 2019 è stata lanciata l’iniziativa “Ambasciatori della Sostenibilità” che ha visto alcune centinaia di visitatori della Kermesse dedicata alla CSR dichiarare di voler sostenere, con la propria firma, una serie di impegni per costruire un futuro sostenibile.

I comportamenti responsabili richiesti ai firmatari, indispensabili per contribuire a migliorare la qualità della vita delle persone e del pianeta sono:

  1. Eliminare l’utilizzo di oggetti di plastica usa e getta. Dai un addio a bicchieri, piatti, tovaglie e posate di carta e plastica.
  2. Ridurre lo spreco alimentare. Acquista solo quello che serve e impara a riciclare gli avanzi
  3. Riparare, regalare o vendere, mai buttare! Ricorda che gli oggetti possono avere più di una vita.
  4. Limitare l’uso dell’auto. Usa l’auto solo quando è indispensabile e condividi il viaggio con colleghi e amici.
  5. Abbattere tutti i muri. Promuovi azioni per una cultura inclusiva, capace di superare tutte le barriere.

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 13 (anno 4 n. 4) Novembre 2019

Fondazione Francesca Rava: «La nostra esperienza al servizio delle aziende che fanno volontariato»

In evidenzaFondazione Francesca Rava: «La nostra esperienza al servizio delle aziende che fanno volontariato»

Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava- N.P.H. Italia: «Promuoviamo la misurazione d’impatto dei progetti di volontariato aziendale, così da poter restituire a beneficiari, dipendenti e governance aziendale la consapevolezza reale del valore creato».

Fondazione Francesca Rava, che aiuta l’infanzia in condizioni di disagio in Italia e nel mondo, è da sempre impegnata nella diffusione nei valori del volontariato tra individui e aziende, anche attraverso programmi di volontariato d’impresa, in un percorso di formazione, consapevolezza e sostenibilità.

In particolare, la Fondazione è impegnata nella diffusione della cultura del volontariato con l’organizzazione di campus solidali, iniziative nazionali come la raccolta di farmaci pediatrici “In Farmacia per i Bambini” che impegna piu di 2.500 volontari su tutto il territorio, il programma di aiuto alle case famiglia “Noi non siamo indifferenza, noi facciamo la differenza”, progetti ad hoc in grado di valorizzare l’impegno di responsabilità sociale degli individui e di aziende con la formula del volontariato d’impresa.


L’importanza del volontariato aziendale

Per agevolare le aziende che mettono in campo attività di CSR e di impatto sulle comunità, Fondazione Rava mette a disposizione il suo network, costituito da un sistema valoriale e di relazione con le Istituzioni costruite sul campo, con un’opera di vero e proprio empowerment dell’azienda.

La Fondazione crede che il volontariato aziendale non debba essere un’azione da compiere in modo occasionale, o con un progetto isolato, ma debba fare parte di un percorso di formazione, con l’accompagnamento dei dipendenti dell’azienda a comprendere il motivo per cui si fa qualcosa e come lo si deve fare, perché la responsabilità sociale dell’azienda passa anche per la responsabilità degli individui che ne fanno parte.

Un progetto di volontariato aziendale deve anzitutto coinvolgere nella progettazione tutti gli stakeholders: la governance aziendale, i dipendenti, le istituzioni, le comunità del territorio. Per essere valido, deve inoltre essere un percorso di creazione di valore e di impatto concreto nelle comunità di riferimento. E deve, infine, essere un percorso fattivo dell’azienda che deve dimostrare di aver portato un cambiamento sostenibile.


Il ruolo di Fondazione Francesca Rava

Fondazione Rava, come detto, mette in campo l’esperienza accumulata negli anni nel mondo del Terzo settore e accompagna l’azienda nel percorso di volontariato scelto. Il suo ruolo è quello di costituire un tramite tra i bisogni delle singole realtà, di attivare le relazioni umane, di dare continuità agli aiuti e di garantire che il risultato e le risorse messe in campo dall’azienda producano un effettivo beneficio.


«Crediamo – sottolinea Mariavittoria Rava, presidente di Fondazione Francesca Rava – N.P.H. Italia – che occorra misurare l’impatto dei progetti di volontariato aziendale, così da poter restituire a tutti gli stakeholders, in particolare ai beneficiari, ai dipendenti e alla governance aziendale la consapevolezza reale del valore creato. La misurazione dell’impatto permette alle aziende di inserire questi programmi nella propria strategia, nel proprio budget e nella pianificazione del proprio lavoro».

BCG, Fondazione Francesca Rava e il rilancio di Cascia

La Fondazione Francesca Rava, in collaborazione con la Protezione Civile, con il Ministero dell’Università e della Ricerca e con le istituzioni locali e grazie a tanti donatori ha ricostruito 8 scuole tra Marche e Umbria, nei luoghi devastati dal terremoto del 2016 e continua a lavorare per portare aiuto a migliaia di bambini e le loro famiglie.

Un impegno che si è sviluppato in particolare a Cascia, in provincia di Perugia, dove nel 2017 la Fondazione ha donato le scuole primarie e secondarie di primo grado e, nel 2018 ha contribuito alla riapertura dell’Ospedale della Valnerina.

Proprio a Cascia, nei giorni tra il 18 e il 20 settembre scorsi, il team della Fondazione Rava con 560 persone di BCG (Boston Consulting Group, società leader nella consulenza strategica, presente in 50 Paesi del mondo e attiva in Italia da oltre 30 anni) hanno vissuto tre intensi giorni in relazione con la comunità locale, portando aiuto concreto con attività di volontariato e stimolando la ripresa economica del territorio.

Un’esperienza che ha visto BCG mettere in campo, per l’attuazione del progetto, competenze specifiche di progettualità e lavoro di team, risorse umane e la propria forza economica. Dal canto suo Fondazione Rava ha fornito la propria competenza nelle relazioni umane, nella collaborazione con le istituzioni e la continuità del lavoro nelle comunità in difficoltà.


Queste le attività realizzate:
• esercitazioni con la Protezione Civile, per avere conoscenza di quanto avviene nelle situazioni di emergenza
• tre diversi cammini, per entrare in contatto con la ricchezza del territorio e scoprirne le ferite dovute al sisma
• riqualificazione della piazza principale di Cascia, piazza San Francesco, con la predisposizione di un nuovo parco giochi allestito anche grazie al lavoro dei volontari
• decorazione di alcuni edifici scolastici e accompagnamento ai ragazzi delle scuole alla scoperta delle opportunità del mondo della consulenza e del Terzo settore.

Oltre alla soddisfazione per avere contribuito al miglioramento della qualità della vita delle popolazioni così duramente colpite, le persone di BCG hanno avuto l’opportunità di vivere l’azienda in un modo differente, avendo dato loro una preziosa opportunità di mettersi a disposizione degli altri, facendo stare bene prima di tutto loro stessi.

Giuseppe Falco, Amministratore delegato di BCG ha dichiarato: «Questi obiettivi nascono in risposta alle richieste di rilancio che la comunità di Cascia esprime con forza, e per realizzarli BCG e Fondazione Francesca Rava intendono anche ricondurre l’attenzione pubblica su questo territorio ancora in difficoltà a tre anni dal sisma. La vera ricostruzione va ben oltre il pur fondamentale intervento sugli edifici e le infrastrutture».

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 13 (anno 4 n. 4) Novembre 2019

Simon Zadek: «Una task force dell’ONU per fintech e sviluppo sostenibile»

Simon Zadek: «Una task force dell’ONU per fintech e sviluppo sostenibile»

Unipol ha ospitato a Milano Simon Zadek, rappresentante del gruppo di lavoro creato dalle Nazioni Unite che ha l’incarico di comprendere come la digital financing possa connettersi con gli obiettivi di sviluppo sostenibile.

 

Sulla terrazza panoramica della Torre Velasca, con un affaccio spettacolare sul Duomo di Milano e sulla città intera, Simon Zadek, senior advisor to the administrator of the United Nations Development Programme e, da novembre 2018, sherpa della Task force on digital financing of the sustainable development goals, ha parlato del progetto voluto personalmente dal Segretario generale delle Nazioni Unite, il portoghese António Guterres.

«Si tratta di una task force sulla digital financing voluta per comprendere come le fintech – tra cui criptovalute, boclk-chain, intelligenza artificiale, big data, ecc. – possano essere utili nel settore finanziario, in particolare come questi nuovi ecosistemi tecnologici stiano modificando la finanza e come si connettano con gli SDGs, gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Fanno parte di questa task force sedici persone scelte tra diversi player del settore finanziario, guidati da Achim Steiner, tedesco, che è il capo di UNDP (U.N. Development program) e Maria Ramos, portoghese di nascita ma sudafricana d’adozione, fino a qualche mese fa CEO di ABSA Group».

Zadek 2

Le domande che la task force si è posta in questi primi sei mesi di lavoro sono le seguenti: come le fintech modificheranno la finanza? Come possono aiutare lo sviluppo sostenibile? Dove si individueranno, in futuro, le opportunità per modificare il modo in cui le fintech finanziano gli SDGs? Come verranno affrontati i rischi e i problemi connessi a questi passaggi?

«Per rispondere a queste domande – ha sottolineato Zadek – dobbiamo capire come possiamo stimolare gli imprenditori, le banche centrali, i legislatori dei vari Paesi, così da poter comprendere e decidere quali siano le tecniche di regolazione migliori da adottare».

Il giro del mondo in 18 mesi

È proprio questo il motivo per cui Zadek gira il mondo ed è arrivato anche in Italia, a Milano, ospite di Unipol: «Il mio compito è quello di chiedere alle persone che dirigono le aziende, da quelle più grandi alle start-up più piccole, che cosa stanno facendo per capire come le fintechpossano supportare le sostenibilità. I miei incontri hanno finora toccato molte parti del mondo – come Singapore, Pechino, Sud Africa, Parigi, Londra, New York, Silicon Valley – e nei prossimi mesi avrò altri appuntamenti importanti. I contenuti e la portata degli incontri sono i più disparati: si va da quello avuto con 900 responsabili della compliance di Singapore a quello tenuto a Parigi, con i 25 rappresentanti delle banche centrali».

L’attività della task force ha avuto inizio il 29 novembre 2018 e si concluderà tra aprile e maggio 2020. Avrà dunque una durata di 18 mesi, alla fine dei quali sarà prodotto il primo report per il Segretario Generale delle Nazioni Unite, che sarà presentato a settembre 2020.

Il sistema delle tavole rotonde, adottato con successo anche qui a Milano sarà mantenuto fino a gennaio 2020. Questo perché il confronto diretto tra varie realtà viene ritenuto indispensabile per tastare il polso ai cambiamenti in atto: «Tutto il settore sta cambiando molto rapidamente. È di pochi giorni fa la notizia che Facebook ha lanciato “Libra” la criptovaluta che permetterà agli utenti di decine di piattaforme di scambiarsi denaro tra loro e pagare acquisti con questa sorta di moneta “franca” mondiale. È una notizia epocale, un evento che può cambiare il mondo e che modifica radicalmente la di- scussione in atto: da questo momento nulla è più come prima. È importantissimo quindi essere aggiornati in tempo reale, recependo quelle che sono le istanze, le opinioni, le indicazioni che provengono dal mondo reale».

Fintech e comunicazione

Uno degli aspetti più positivi relativi alle tecnologie digitali del Fintech è il fatto che queste permettono di trasferire e far conoscere agli investitori dati più dettagliati, più veloci, più economici, in sostanza dati migliori rispetto a prima.

«Oggi nel mondo c’è un’offerta di un trilione di dollari di obbligazioni green e sostenibili – ha ricordato l’inviato dell’ONU –. È importante riuscire a farlo capire agli investitori, che devono essere messi nella condizione di sapere come possono essere impiegati i loro soldi. Per questo è importante avere dati di quantità e qualità sempre maggiori».

Gli esempi a disposizione di come il Fintech possa cambiare il mondo della finanza perseguendo al meglio gi SDGs sono numerosi, ha ricordato Zadek, che ne ha voluto riportare alcuni: «Penso alla Blue Planet, azienda americana di grandi dimensioni che presto sarà in grado di misurare le emissioni di CO2 emesse da ogni edificio. O penso ancora all’iniziativa M-Kopa in Kenya, che è tra l’altro il Paese più digitalizzato al mondo, grazie alla quale, partendo da una “Payment platform” puoi avere credito e acquistare energia solare sulla base del consumo effettivo, come i sistemi a gettone di una volta. Una soluzione che può risolvere uno dei grossi problemi che riguardano i Paesi in via di svilluppo, quello dell’energia, e può dare la giusta spinta per avviare la loro economia. Non a caso il Kenya sta utilizzando oggi molta più energia solare rispetto agli altri Paesi».

Soluzioni diverse per Paesi diversi

Una domanda sorge spontanea: com’è possibile mettere insieme gli interessi dei vari Paesi del mondo, così diversi tra loro per cultura, economia, sensibilità agli obiettivi di sviluppo sostenibile?

«È vero – risponde il rappresentante delle Nazioni Unite –, ci sono differenze enormi tra i Paesi, non può esserci una soluzione unica, valida per tutti. Ci possono però essere soluzioni che possono funzionare in maniera diversa da Paese a Paese. Faccio un esempio: ANT Financial Services, una società fintech cinese, ha creato un’app sulla piattaforma Alipay, per cui se tu stai comprando beni utilizzando il tuo cellulare hai in tempo reale l’indicazione del consumo di CO2 collegato a quell’acquisto. Ogni azione è collegata a un benchmark e, come se fosse un social media game, se lo batti ottieni dei punti per cui loro si impegnano a piantare degli alberi in Mongolia. In questo momento ci sono 400 milioni di persone che stanno utilizzando questa app – che è quella con la crescita più importante di tutta la storia digitale – che funziona senza che venga coinvolto del denaro. Ora si sta pensando di lanciare la stessa iniziativa nelle Filippine, ma non è detto che lì ottenga lo stesso risultato. Per questo al posto della CO2 potrebbe riguardare qualcos’altro, più collegato alla realtà di questo nuovo Paese. Cambia l’oggetto, ma non la ratio, che rimane sempre la stessa, quella che ci fa tornare al nostro interrogativo iniziale: come le fintech possono aiutare a perseguire obiettivi di sostenibilità, che possono variare Paese per Paese?».

Esistono comunque obiettivi che sono globali, che devono rimanere tali? «Certo, alcune opportunità e iniziative devono essere estese a livello globale. Una criptovaluta come Libra, ad esempio, non può che essere globale: non ha senso proporla solo in Italia, o a Malta, o in Cina. Alcuni progetti hanno bisogno di iniziative comuni, internazionali».

Lavorare sulla finanza di domani

L’aspetto fondamentale, il nucleo dell’attività della Task force messa in piedi dalle Nazioni Unite è riuscire a capire come opererà il mondo finanziario del futuro. Un obiettivo che è diventato sempre più chiaro, negli ultimi tempi e che nasce da un percorso lungo e articolato, corrispondente all’esperienza personale e professionale dello stesso Simon Zadek.

«Ho iniziato negli anni 90 lavorando sui diritti sul lavoro, e sui diritti sociali – il suo racconto –, poi ho iniziato a lavorare con i gruppi dirigenti di grandi società siderurgiche, farmaceutiche, energetiche ecc. Ho lavorato per grandi aziende, introducendo il tema della sostenibilità. A un certo punto ho capito che il mondo finanziario era quello su cui si doveva puntare. La finanza è il centro dell’economia globale e ha obiettivi molto più a breve termine rispetto alle grosse aziende. Ho anche capito che il punto cruciale della finanza era in Cina e ho iniziato a lavorare in quell’immenso Paese con i regolatori finanziari che cominciavano a parlare di sostenibilità ambientale. A questo punto le Nazioni Unite hanno detto: perché non istituiamo una commissione internazionale che si occupi di questi obiettivi? Dalla Cina ho guidato la commissione per quattro anni, studiando da vicino che cosa facevano le banche centrali, i legislatori finanziari, gli standard setters, gli stock exchanges, gli accounting bodies.

Fino a quando mi sono accorto che stavamo facendo un grande errore: stavamo tentando di risolvere il problema basandoci sul sistema finanziario del passato, non tenendo conto che il sistema finanziario di domani sarà completamente diverso, a causa della digitalizzazione. Per questo è nata la task force».

Il futuro è già qui

Alla luce di questi primi mesi di incontri, analisi, confronti, è possibile capire se tutto questo lavoro stia producendo il risultato auspicato? Se effettivamente riuscirà a influire sull’impostazione della finanza del futuro?

«La mia opinione è che il futuro sia già presente oggi, sebbene non lo si possa vedere. È già presente in alcune iniziative e sperimentazioni. Finché non unisci i puntini non te ne accorgi, ma se ascolti molto attentamente e discuti con le persone che incontri, ti accorgi che il futuro è già qui. Il mio lavoro non è predire come potrà essere il futuro, ma influire su quello che c’è già. Ho bisogno di incontrare le persone che stanno modellando il futuro e discutere con loro. Ed è proprio quello che ho fatto anche qui a Milano».

 

Che cosa s’intende con il termine “Fintech”

Il Fintech – parola nata dall’unione di “finanza” e “tecnologia” – è il settore dell’industria finanziaria che offre i propri servizi attraverso le nuove tecnologie digitali.

Con Fintech, in particolare, si indica sia il processo di evoluzione che è in corso dell’industria finanziaria, sia il modo di usufruire dei servizi finanziari da parte degli utenti utilizzando strumenti digitali (l’esempio più classico e semplice è quello del bonifico online).

 

 

(Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 12 (anno 4 n. 3) Luglio 2019

 

Medtronic, tecnologia e innovazione al servizio della vita

Medtronic, tecnologia e innovazione al servizio della vita

«Le organizzazioni di successo – dice Michele Perrino, Presidente e Amministratore delegato di Medtronic Italia – sono quelle con una forte missione. Se hai un progetto basato su grandi valori potrai raggiungere obiettivi importanti».

La storia di Medtronic comincia con Earl Bakken, il suo fondatore, in un garage del Minnesota. Fu infatti in questo luogo, che lo stesso Bakken, scomparso lo scorso novembre all’età di 93 anni, inventò il primo pacemaker a batteria, strumento che da quel momento in poi avrebbe salvato la vita a milioni di persone in tutto il mondo.

Oggi, Medtronic, a distanza di 70 anni, è un colosso che opera in tutto il mondo, è leader di mercato di dispositivi e soluzioni mediche e vanta la sua presenza in tutte le aree terapeutiche, dal cardiovascolare al diabete, dalla neurologia alla chirurgia generale e al Parkinson, dall’oncologia alle neuroscienze.

Un’azienda che ancora oggi basa la sua attività sulla sua mission che lo stesso Earl Bakken ha scritto e sulla quale si è fondato lo spirito, il lavoro, il servizio e la cultura che sono alla base di quanto viene fatto tutti i giorni. Una missione che al sesto pilastro annovera la Responsabilità Sociale d’azienda.

E per concretizzare da subito i progetti filantropici volti a costruire comunità sempre più sane nel mondo, Earl Bakken ha creato la Fondazione Medtronic.

Ne parliamo con Michele Perrino, Presidente e Amministratore delegato di Medtronic Italia.

Qual è il motivo per cui, in generale, oggi si parla finalmente con continuità e interesse di CSR?

«Oggi è aumentata la consapevolezza dei tanti problemi che affliggono il mondo. Questo ha portato a una maggiore attenzione a tematiche che in passato non venivano per niente tenute in considerazione. Attorno a me vedo tanta gente che cerca di dedicare un pezzo della sua vita a fare qualcosa per gli altri. Si è passati da un concetto di responsabilità basata sul “devo fare” a qualcosa che “voglio fare perché è parte di me”. Inoltre, le attuali generazioni mostrano una grande attenzione alla sostenibilità. E questo accade anche all’interno delle grandi aziende. Le attività di CSR permettono infatti un miglioramento della reputazione aziendale grazie anche a un approccio integrato tra il management e i dipendenti».

Entriamo nel particolare. In che cosa si estrinseca la Missione di Medtronic?

«Nell’offrire cure innovative volte a garantire una migliore assistenza sanitaria. Ogni giorno operiamo a fianco di medici e pazienti nelle sale operatorie, nei centri di ricerca con le nostre tecnologie mediche e le nostre soluzioni che, nell’ultimo anno, hanno migliorato la vita di oltre 70 milioni di persone nel mondo. Una ogni due secondi. Tutto questo è possibile grazie al grande impegno delle persone che ogni giorno lavorano in quest’azienda e che hanno fatto propria la nostra missione. L’impatto che tutti noi possiamo dare alla comunità in cui ci troviamo a operare è molto importante. È qualcosa che cerchiamo di vivere e alimentare quotidianamente».

Per entrare più nel dettaglio, quale apporto dà la vostra azienda alle tante comunità del mondo con cui ha direttamente a che fare?

«La nostra attività è legata ai 17 global goal dell’Onu, in particolare al numero 3, quello che chiede di promuovere e ricercare la salute e il benessere per tutti. Sia- mo infatti tra i soci fondatori di Impact2030, il progetto che vede coinvolte tutte le aziende a livello mondiale che si sono impegnate, con la propria declinazione strategica e i propri dipendenti, nel contribuire al raggiungimento degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Crediamo che il nostro impegno nel volontariato aziendale e nelle scelte strategiche per il bene comune siano strumenti importanti per accelerare il raggiungimento globale degli SDG e ispirare gli altri a un’azione positiva. È importante, inoltre, l’attività della nostra Fondazione, che ogni anno destina contributi importanti nei vari Paesi per costruire comunità sempre più sane in aree critiche e a sostegno di situazioni di emergenza come, ad esempio, il terremoto di Haiti. La nostra responsabilità si declina inoltre nello sviluppo tecnologico e nell’innovazione, che sono da sempre protagonisti di un continuo e costante sviluppo. Per questo siamo tra i sostenitori di Fondazione Mavericks che opera nel distretto biomedicale di Mirandola, il principale d’Europa, nel quale metteremo a disposizione le nostre competenze per facilitare e velocizzare la creazione di un sistema virtuoso con l’obiettivo di generare ancora più valore grazie alle capacità di Mirandola, che da sempre rappresenta l’anima medtech italiana nel Mondo».

Dal punto di vista dell’impegno sociale, per voi, giugno è un mese speciale…

«Giugno è il mese del volontariato di Medtronic in tutto il mondo. Per questo da 10 anni è nato il “Project 6”, dove il 6 indica il sesto pilastro della nostra mission – la responsabilità sociale d’azienda – e il mese di giugno. Il progetto ha totalizzato a livello globale 2.500 progetti di volontariato e coinvolto 2.150 associazioni no profit in 52 Paesi, donando alla comunità 280mila ore di volontariato».

A livello dirigenziale qual è il coinvolgimento in ambito CSR di Medtronic Italia?

«Ci siamo dati una governance integrata, cercando di intercettare i valori principali e di grande responsabilità con cui un’azienda si deve muovere: innovazione, quindi valore intellettuale; valore sociale, quindi contributo dato all’esterno; valore organizzativo, quindi ciò che facciamo al nostro interno valorizzando le singole persone, verso la nostra comunità di dipendenti composta da 2.400 persone; impatto sull’ambiente, cioè quello che facciamo verso l’ecosistema. Questi valori, che vanno oltre quelli finanziari e che sono tipici dell’approccio integrato, li abbiamo declinati in una vera e propria dashboard con cui il board della nostra azienda si confronta mensilmente».

Questa sensibilità si riflette anche sulla natura dei vostri prodotti?

«La maggior parte delle nostre attività assume una connotazione sempre più valoriale. Come ad esempio il lancio di un prodotto, nel quale oggi, sempre più, tendiamo a sottolineare la possibilità di migliorare la vita delle persone cui si rivolge e l’impatto innovativo che può avere nel mondo dell’assistenza sanitaria, anziché soffermarci soltanto sulla novità di prodotto».

Che cosa si augura per il futuro della sua azienda?

«Si dice che le organizzazioni di successo siano quelle che si ispirano a un valore forte. Un’affermazione che mi trova d’accordo: non sono mai quelle che hanno la strategia giusta, a crescere di più, non quelle che hanno solo il prodotto migliore. Ma sono quelle che condividono un progetto e un obiettivo comune. Alla base di tutto restano comunque i valori. E sono sicuro che quelli, in Medtronic, non mancheranno mai».

 

Medtronic, storia e missione

Con 360 sedi in 160 Paesi – in Italia 8 sedi in cui lavorano 2.400 dipendenti – Medtronic è l’azienda di tecnologie e soluzioni mediche più grande al mondo. Fondata nel Minnesota (USA) nel 1949 da Earl Bakken come negozio per riparazioni di attrezzature mediche, nel corso degli anni Medtronic ha sviluppato molte tecnologie: dispositivi medici impiantabili, dispositivi di somministrazione farmacologica e strumenti chirurgici avanzati. Tecnologie che permettono, oggi, di trattare quasi 40 patologie. La Missione di Medtronic – fonte di ispirazione per i suoi dipendenti di tutto il mondo – coincide con la dichiarazione di intenti creata nel 1960 che impone, come prima e inderogabile priorità, di contribuire al benessere umano.

Questi i punti della dichiarazione d’intenti:

  • contribuire al benessere umano applicando l’ingegneria biomedica alla ricerca, alla progettazione, alla produzione e alla distribuzione di strumenti o apparecchi che eliminano il dolore, ridonano la salute e prolungano qualitativamente la vita
  • dirigere la nostra crescita nelle aree della bioingegneria nelle quali dimostriamo il massimo della nostra forza e capacità
  • integrare individui e strumenti che tendono a far crescere queste aree; rinforzarle attraverso l’istruzione e l’assimilazione culturale; evitare la partecipazione in aree nelle quali non siamo in grado di dare un contributo unico e valido
  • mantenere senza riserve, con la massima affidabilità e qualità i nostri prodotti; essere termini di paragone e riconosciuti come Società istituzionalmente seria e integra nel rendere i suoi servizi
  • raggiungere il giusto profitto per fronteggiare gli impegni, sostenere la nostra crescita e centrare i nostri obiettivi
  • riconoscere il valore del personale impiegato offrendo un ambiente lavorativo che permetta la gratificazione del lavoro compiuto, sicurezza, opportunità di avanzamento e mezzi idonei a condividere il successo dell’Azienda
  • mantenere una presenza sociale come Azienda.

Il sostegno al progetto Obecity

Di obesità muoiono ogni anno, in Italia, circa 57mila persone. Mille persone a settimana, 150 al giorno, una ogni dieci minuti. Sono 6 milioni gli italiani obesi, 25 milioni quelli in sovrappeso. Un bambino su otto è obeso, uno su quattro è in sovrappeso.

È partendo da questi dati allarmanti che Medtronic Italia ha deciso di sostenere il progetto ObeCity, ideato da SG Company, uno dei principali player in Italia nella comunicazione integrata Live & Digital. ObeCity è nato per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dell’obesità e promuovere la prevenzione e l’adozione di corretti stili di vita.

«Abbiamo deciso di sostenere questo progetto – spiega Michele Perrino, Presidente e AD di Medtronic Italia – perché vogliamo dare il nostro contributo e migliorare la qualità della vita delle persone, favorendo abitudini e stili di vita più sani e virtuosi, in linea con la nostra Missione che promuove anche la responsabilità sociale d’azienda e intende prevenire l’impatto di tutte quelle malattie croniche che sempre più pesantemente affliggono le nostre comunità».

 

Dal cuore al cuore

Nata dal mondo del cuore, l’azienda statunitense cui si deve l’invenzione del primo pacemaker ha deciso di arrivare al cuore delle persone sostenendo l’attività della Croce Rossa di Milano e alcune comunità scientifiche in occasione della Giornata Mondiale del Cuore. Una campagna di screening gratuito, per favorire la conoscenza e la prevenzione delle malattie cardiovascolari attraverso la promozione di corretti stili di vita.

«Crediamo in questo progetto – sottolinea Elena Busetto, referente per la Responsabilità sociale d’azienda di Medtronic Italia – perché coniuga due nostri obiettivi globali importanti per tutti noi cittadini, per il nostro quotidiano e per le generazioni future: contribuire all’Agenda 2030 sulle patologie croniche sviluppata dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Salute) e contribuire all’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, focalizzandoci sull’obiettivo specifico dedicato alla buona salute e al benessere».

 

(Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 12 (anno 4 n. 3) Luglio 2019)

Terza missione dell’Università, che cos’è?

Terza missione dell’Università, che cos’è?

Con la terminologia Terza missione (third stream) si intendono le iniziative e i progetti che mettono in relazione la ricerca e la formazione universitaria con le organizzazioni che operano nella società. È “terza” proprio perché si somma alle due attività tradizionali degli atenei: la formazione e la ricerca.

 

Con l’appuntamento “L’Università che non ti aspetti” che ha avuto luogo lo scorso 14 febbraio 2019, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha voluto aprire le sue porte alla città e alle sue componenti, offrendo un evento ricco di idee, relazioni e progetti sviluppati con imprese, enti istituzionali e territori.

IMG_0779«In genere l’Università è nota solo come luogo di accoglienza dei giovani studenti che escono dalle scuole superiori – ha sottolineato Mario Molteni, docente in Cattolica di Economia Aziendale e di Corporate strategy, nonché delegato al coordinamento e allo sviluppo dei rapporti dell’ateneo con le imprese –. Di fatto, invece, gli atenei svolgono numerose altre attività: fanno tantissimo per il territorio, per le persone che sono nella fase della maturità della loro carriera, per le istituzioni, le imprese, le realtà non profit, gli enti sportivi…

Quello che abbiamo voluto fare con questo appuntamento, che verrà replicato nei prossimi anni, è stato sfatare l’idea che ci sia questa netta separazione tra l’accademia e la realtà perché non è così, ci sono migliaia di punti di contatto e di collaborazioni in atto. In questo senso abbiamo scelto la formula della fiera perché chiunque possa venire, dare un’occhiata, soffermarsi sulle cose che più sono vicine ai suoi interessi e comunque abbia un’immagine vivace dell’Università».

 

Una giornata all’insegna dell’apertura

IMG_0814Sotto i portici dell’Università Cattolica è stato possibile scoprire tutte le varie attività di Terza missione dell’ateneo, suddivise per argomento e presentate in modo piacevole e non formale.

«In particolare abbiamo voluto dare spazio ai progetti che ben rappresentano il nostro rapporto con il territorio – ha spiegato il direttore delle sede di Milano dell’Università Cattolica, Mario Gatti –, nella speranza di riuscire a mostrare anche visivamente quello che Cattolica fa, sia per chi non conosce la nostra Università, sia per chi la conosce già ma non sotto questi aspetti».

Per essere più precisi, i visitatori dell’evento “L’università che non ti aspetti” hanno potuto godere della presenza di:

• uno stand dedicato alla lifelong learning

• numerosi banchetti dedicati a oltre 30 progetti con impatto sociale suddivisi nelle aree comunicazione, ambiente e agroalimentare, lavoro, società, scuola, pubblica amministrazione, sport e imprese

• un’area dedicata alle start up

• l’apertura della Sala delle Cinquecentine presso la biblioteca dell’Università

• vari eventi dedicati a musica classica e opera lirica, teatro antico, digital humanities e archeologia.

 

Connessione tra mondo accademico e società

Insomma, quella del 14 febbraio è stata, per usare le parole di Franco Anelli, rettore dell’Università Cattolica, nel corso della presentazione dell’incontro dal titolo “The Third Mission of Universities: opportunities and challenges”: «Un’occasione molto originale, in cui l’Università ha pensato di presentare le proprie attività di Terza missione. Lo ha fatto in un modo organico, comprensivo, offrendo l’insieme delle proprie iniziative. La Terza missione per noi rappresenta il superamento della distanza che spesso si viene a creare tra l’università e il mondo che sta fuori. È in sostanza il mezzo di connessione tra il mondo accademico e i bisogni della società. Con una serie di benefici che ricadono a favore anche della stessa università, che può in questo modo acquisire la sensibilità delle esigenze e riesce anche ad arricchirsi di competenze che si generano al di fuori di essa. Insomma, un’università non chiusa in se stessa ma inserita in modo attivo nella società».

Si parla, in sostanza, di “un’università che vive”, così come l’ha definita Paul Coyle, l’ospite d’onore della serata, direttore di Entrepreneural Mindset Network, un network internazionale composto da membri provenienti da 22 Paesi che opera fornendo supporto ad aziende, team leaders e organizzazioni affinché ottengano benefici dall’utilizzo di una mentalità imprenditoriale.

Che significa, ha spiegato il professore inglese in un’aula Pio XI particolarmente attenta, con la presenza del presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana: «Un’università che costruisce, innova, che è viva e dinamica, che cambia. Un’università che collabora con altre realtà per creare valori economici, sociali e culturali per la società. Un’università, infine, che crea semi per un futuro di successo per tutti noi».

Gli ambiti della Terza Missione

In Italia si riconoscono due grandi ambiti in cui possono rientrare le attività di Terza missione: la valorizzazione economica della ricerca scientifica e la produzione di beni pubblici di natura sociale, educativa e culturale.

Un concetto di entrepreneurial university che si espande in quello più vasto e inclusivo di civic university, che descrive un’università in grado di collegarsi non solo con il sistema produttivo, ma anche con i cittadini e con il contesto sociale più ampio.

Nella sostanza, nella Terza missione rientrano tre principali capitoli:

  • lifelong learning, ovvero l’aggiornamento culturale e professionali che viene protratto nel corso dell’intera vita
  • trasferimento di conoscenza, cioè tutto ciò che viene creato all’interno dell’Università e trasferito nella società con l’obiettivo di generare impatti innovativi
  • public engagement, ovvero il collegamento tra Università e società a livello di progetti e di giudizi offerti attraverso convegni, (nel 2018 la Cattolica ne ha organizzati circa 1.200), pubblicazioni ed eventi di varia natura.

 

 

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 10 (anno 4 n. 1) Febbraio 2019

Fondazione Mediolanum Onlus: «Se qualcuno ti chiede aiuto e puoi, devi!»

Fondazione Mediolanum Onlus: «Se qualcuno ti chiede aiuto e puoi, devi!»

Sara Doris, presidente esecutivo di Fondazione Mediolanum Onlus racconta la genesi e gli obiettivi di una realtò nata nel 2002 da una costola di Banca Mediolanum e oggi attiva nel settore dell’infanzia, in Italia e nel mondo.

SARA DORIS_OK2«Fondazione Mediolanum Onlus è nata nel 2002 dall’esigenza di organizzare meglio una serie di attività che già svolgevamo nel sociale come banca – spiega Sara Doris, dal 2005 Presidente Esecutivo della Fondazione, una delle realtà non profit più presenti e operative sull’intero territorio nazionale –. Fino a quel momento rispondevamo alle richieste che ci giungevano da più parti in maniera spontanea, in base agli input che ricevevamo, ma a un certo punto abbiamo capito che era giunto il momento di convogliare le forze in un’organizzazione strutturata e solida, che si occupasse a tempo pieno dei più deboli e bisognosi».

E così è nata la Fondazione, in attuazione di un concetto che il padre di Sara, Ennio Doris, fondatore di Banca Mediolanum, si è sempre posto come regola di vita: “Se qualcuno ti chiede aiuto e tu puoi, devi!”.

Nei primi tre anni di vita, Fondazione Mediolanum Onlus ha prestato la sua opera in varie direzioni, la svolta ha avuto luogo nel 2005: «Ci siamo detti: scegliamo un ambito di intervento – spiega Sara Doris –, e così abbiamo puntato sull’infanzia, perché ci siamo accorti che lì c’era la vera fragilità, i grandi bisogni, quelli che ti fanno dire: “Se non intervengo subito non ci sarà futuro per tutti questi bambini”».

Da lì è scaturita la scelta iniziale di intervenire soprattutto all’estero…

«Sì, abbiamo iniziato all’estero perché dal terzo e quarto mondo ci giungevano le richieste più importanti, in grado di influire davvero sulla crescita di bambini e adolescenti. Perché costruire una scuola in un Paese del terzo mondo significa non solo assicurare la scolarizzazione, significa anche togliere i giovani dalla strada, dare loro un pasto caldo, offrire un modello di vita diverso da quello vissuto fino a quel momento nelle baraccopoli. Man mano che il tempo è passato abbiamo però pensato che fosse importante agire anche in Italia, dove è presente Banca Mediolanum, visto che siamo una sua emanazione e ne rispecchiamo i valori, che sono quelli di mettere la persona al centro».

Con quali criteri scegliete i progetti da sostenere?

«L’aspetto principale, per noi, è che si tratti di progetti concreti, non di semplici attività di sensibilizzazione. È importante che il progetto sia ben definito e riconoscibile da chi esegue la donazione, che deve sapere bene di che cosa si tratta, quanti bambini aiuta, quali obiettivi si prefigge. Secondo noi tutte le persone hanno piacere di aiutare gli altri, e lo fanno con ancor maggior voglia quando c’è una chiara risposta alla domanda “i miei soldi dove vanno a finire?”. Per questo siamo attenti ai risultati che vengono raggiunti nel tempo, non ci accontentiamo di procedere con la donazione iniziale, vogliamo verificare quali sviluppi stiano avendo i singoli progetti. Incontriamo molte associazioni, ce ne sono di validissime, soprattutto quelle create da genitori, che sono davvero degli eroi perché hanno la forza di superare il peggiore dei drammi, la perdita di un figlio, e trovano la forza per aiutare gli altri. Ci riteniamo fortunati, perché la nostra attività ci permette di conoscere tante brave persone».

Oggi siete operativi anche in Italia, in modo quasi capillare. Come fate a essere così presenti su tutto il territorio nazionale?

«Per noi è fondamentale la collaborazione con i Family Banker, i consulenti finanziari di Banca Mediolanum, che affiancano i clienti nella pianificazione del loro portafoglio. Sono oltre 4.200 e sono ben distribuiti in tutta Italia. Molti tra loro ci danno una mano a individuare le situazioni di bisogno e si attivano in modo del tutto volontario per informare i propri clienti delle possibilità d’aiuto che offriamo. Ci permettono inoltre di individuare le persone e le associazioni più attive nelle varie realtà locali».

Ci può fare qualche esempio di progetti realizzati grazie all’intervento dei Family Banker?

«Penso al progetto “Centesimi che contano”, che prevede la donazione una volta al mese, da parte dei clienti che decidono di aderire, dei centesimi che risultano a saldo del proprio conto corrente. Ed è grazie a questi centesimi, che tutti insieme raggiungono importi significativi, che la Fondazione è in grado di sostenere progetti in linea con i propri valori. In questi ultimi anni, per esempio, il beneficiario è stato Dynamo Camp, un centro di terapia ricreativa, primo in Italia, situato in Toscana e fondato da Enzo Manes. Il Camp mette a disposizione di bambini con gravi disabilità e che hanno bisogno di un’assistenza continua, personale medico, specialisti, volontari in modo tale che possa- no trascorrere una settimana di vacanza, con o senza i genitori, sentendosi come tutti gli altri bambini. Inoltre alcuni Family Banker, i più sensibili al tema, organizzano eventi di raccolta fondi per progetti di realtà locali che operano a favore dell’infanzia in condizione di disagio sul territorio italiano. Diciamo che sono il trait d’union tra la Fondazione e queste piccole associazioni che altrimenti non avremmo modo di conoscere. Tutto quello che riescono a raccogliere durante questi eventi viene poi raddoppiato dalla Fondazione, da un minimo di 2mila a un massimo di 5mila euro».

Una delle vostre attività principali è proprio quella della raccolta fondi. Come la mettete in campo?

MG_7151«Possiamo contare sulle liberalità che provengono dalla banca e dalla raccolta per il 5Xmille, ma in buona parte raccogliamo fondi attraverso la Community Mediolanum. Nello specifico, procediamo con due raccolte semestrali durante gli eventi della banca, di qualsiasi tipo essi siano. Ad esempio, partecipiamo agli eventi di Mediolanum Corporate University che ospitano personaggi illustri come Patch Adams, il medico americano inventore della clownterapia, o Simona Atzori, la ballerina “senza ali” che porta nei teatri la sua visione della vita, ossia che i limiti che l’essere umano ha sono solo mentali. Ma non è tutto, dallo scorso anno abbiamo raccolto fondi sulla “Rete del Dono”, una piattaforma online su cui chiunque può proporsi come fundraiser per un progetto a cui tiene, invitando amici, parenti, ma anche persone sconosciute a donare qualche euro. Attraverso l’impegno dei colleghi della banca che hanno agito volontariamente abbiamo raccolto più di 100mila euro insieme a MissionBambini, una realtà che attraverso il progetto “GiveTheBeat” si occupa, nei Paesi più poveri del mondo, di missioni con equipe di medici chirurghi per operare al cuore bambini malati che altrimenti non avrebbero possibilità di essere curati. Infine, tra le iniziative finalizzate alla raccolta fondi c’è anche la Fundraising Gala Dinner, una cena di beneficenza che organizziamo una volta l’anno in collaborazione con la Banca. Sono invitati fornitori, investitori e stakeholder in genere cui chiediamo di partecipare per sostenere il progetto beneficiario della raccolta. Quest’anno la raccolta della serata è andata a favore del progetto dell’Andrea Bocelli Foundation per la ricostruzione della scuola di Muccia nelle Marche, zona duramente colpita durante il terremoto del 2016, perché restituire al territorio il suo primo punto di incontro ritengo sia il primo tassello per aiutare una comunità a ripartire, e con i bambini abbiamo il futuro davanti. Tra l’altro, sempre nella stessa zona, abbiamo già collaborato con ABF per la scuola di Sarnano inaugurata lo scorso maggio e con Fondazione Francesca Rava per le scuole di Eggi e Cascia».

Si parla sempre più di CSR, di un modo di fare business nuovo, più sensibile al sociale. Voi avvertite questo cambiamento?

«Sì, ci sembra che la sensibilità sia davvero cresciuta. Soprattutto, oggi c’è la consapevolezza di come sia importante far sapere quello che si fa, perché si può essere di buon esempio per gli altri. Abbiamo bisogno di modelli positivi e virtuosi ed è im- portante poter avere esperienze da copiare o comunque da prendere come spunto. Per questo pensiamo che le cose che si fanno bisogna raccontarle, non per farsi belli ma per ispirare gli altri».

 

 

Mission, Obiettivi e attività svolte

Fondazione Mediolanum onlus si adopera per educare alla libertà, perché i bambini di oggi possano essere gli adulti liberi di domani.

A fianco dell’istruzione di base e alla possibilità di imparare un mestiere trova spazio la soddisfazione dei bisogni primari: cibo, alloggio, vaccinazioni e cure mediche.

In questo modo la Fondazione rende possibile a decine di migliaia di bambini il raggiungimento di un’autonomia per una vita da adulto libero e rispettoso dei valori universali dell’individuo e sempre nella salvaguardia delle tradizioni culturali e religiose locali.

Per perseguire questo obiettivo Fondazione Mediolanum Onlus propone:

  • l’assunzione di impegni nel lungo periodo per verificare l’efficacia dell’intervento e la portata del cambiamento;
  • la realizzazione di interventi concreti e duraturi per sviluppare e creare valore aggiunto negli ambiti locali dove interviene;
  • la trasparenza nelle attività seguite e la costante verificabilità dell’avanzamento dei progetti;
  • la collaborazione con partners di comprovata esperienza nel settore della solidarietà.

Le richieste di finanziamento dei progetti sono scelti sulla base dell’attinenza alla mission di Fondazione Mediolanum Onlus nella sua attività di sostegno all’infanzia disagiata in Italia e nel Mondo.

Dal 2005 al 2017, la Onlus ha sostenuto 386 progetti erogando 11,6 milioni di euro e aiu- tando 66mila bambini in condizioni di disagio in Italia e in 46 Paesi nel mondo. (fonte: http://www.fondazionemediolanum.it)

 

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 9 (anno 3 n. 5) Dicembre 2018

Gi Group, una multinazionale dal business sociale

Gi Group, una multinazionale dal business sociale

«Trattare l’incontro tra aziende e candidati come se fosse esclusivamente il nostro business – dichiara Sara Osti, CSR & Compliance Project Manager di Gi Group – sarebbe estremamente deleterio al fine dei risultati che vogliamo ottenere».

 

Gi Group, prima multinazionale italiana del lavoro, nonché una delle principali realtà a livello mondiale nei servizi dedicati allo sviluppo del mercato del lavoro, ha origini italiane e casa madre a Milano, a pochi passi dalla Stazione Centrale.

Ci sembra interessante scoprire quale sia l’attenzione prestata da questa azienda, le cui filiali sono distribuite ormai in buona parte del mondo, alle tematiche legate alla CSR e alla sostenibilità. Lo facciamo con l’aiuto di Sara Osti, che di Gi Group è CSR & Compliance Project Manager.

Dottoressa Osti, qual è la strategia CSR di Gi Group?

sara_osti.jpg«La nostra azienda è già di per sé una società orientata, a livello di business, a trattare un argomento fortemente sociale, di impatto fondamentale nella vita delle persone, come è il lavoro. Il nostro primo obiettivo è quello di instaurare un matching corretto tra le persone che stanno cercando un’occupazione e le aziende che stanno cercando lavoratori da inserire nel loro organico. Trattare questo “incontro” come se fosse esclusivamente il nostro business esclusivamente commerciale sarebbe estremamente deleterio al fine dei risultati che vogliamo ottenere. È quindi piuttosto naturale, per un gruppo come il nostro essere sensibile alle tematiche proprie della sostenibilità. È un approccio che ci viene naturale, tant’è che per alcuni versi diventa quasi difficile scindere il nostro lavoro dall’attenzione che rivolgiamo alla comunità in cui ope- riamo».

Lei ha parlato di “Gruppo”. La strategia di CSR è la stessa ovunque voi siate o si diversifica a seconda del territorio in cui vi trovate a operare?

«Abbiamo un’impostazione di base volta a mantenere il più possibile la coerenza tra la nostra attività professionale e le iniziative di CSR che vogliamo portare avanti. Partendo da questa, il fil rouge che abbiamo scelto di seguire in questi anni con le iniziative a livello globale – come “Destination Work” – è quello del sostegno all’employability, che è coerente con il nostro lavoro ma si spinge anche al di là. Arriviamo cioè a fornire alle persone che ne hanno bisogno gli strumenti che possano renderle indipendenti nel trovare lavoro. Un’attività che viene adeguata, volta per volta, ai vari Paesi in cui operiamo. Mi vengono in mente i progetti portati avanti in Russia con ragazzi affidati a orfanotrofi, o all’esperienza in UK, dove abbiamo lavorato molto con le scuole e con ragazzi più giovani, non necessariamente pronti a entrare nel mondo del lavoro. In Italia, essendoci la casa madre, la presenza del maggior numero di società del gruppo e quindi anche la possibilità di integrare e far rendere al meglio le competenze dei diversi settori, riusciamo a sviluppare attività ancor più articolate, più approfondite».

Le aree in cui siete più attivi quali sono? Siete attenti più alla persona o al contesto sociale in cui questa è inserita?

«I due aspetti sono tra loro strettamente correlati. Molti progetti sono pensati tenendo presenti le maggiori difficoltà di alcune persone o fasce di popolazione rispetto al tessuto sociale in cui sono inserite. Per cui c’è un’ovvia lettura del contesto che non può essere ignorata, non sarebbe efficace la possibilità di intervento sulla singola persona se non si prendesse in considerazione il contesto globale in cui essa vive. Dalla persona si parte e si va poi a ricadere, si spera positivamente, su alcune situazioni. In questo momento, per coerenza con la nostra attività, non stiamo invece ancora facendo il percorso inverso, di prenderci in carico una situazione più allargata a livello sociale e scendere verso la persona».

La vostra attività di CSR ha riscontri anche all’interno dell’azienda?

«Abbiamo misure di welfare aziendale attive da anni, che puntano a dare un sostegno ai dipendenti sotto diversi aspetti, fornendo la possibilità, per esempio, di concorrere a spese di asilo nido, scuole materne, attività sportive per i figli… non solo quindi mirate ai singoli dipendenti ma allargate alle loro famiglie. A supporto della nostra attenzione sui temi di welfare e sulla concretezza dell’approccio di attenzione al dipendente di Gi Group, quest’anno ci siamo certificati SA8000 così da fornire un supporto ancora più strutturato a tutto ciò che già esisteva. È un impegno ulteriore, perché nel momento in cui ci si apre alla certificazione ci si mette in gioco fino in fondo».

Dati da voi resi noti rivelano che solo il 7% dei vostri dipendenti ha più di 50 anni, è un caso?

«Il dato riguarda la globalità personale del Gruppo. Per Gi Group spa in particolare, la maggior parte dell’organico è costituito da persone che lavorano in filiale, attività tendenzialmente adatta anche a profili giovani, portatori di entusiasmo, oltre che di competenze, e capaci di relazionarsi con un’utenza che, in Gi Group spa, è costituita per quasi il 50% da persone under 30. Un altro degli aspetti positivi collegato all’attenzione di Gi Group per il dipendente è che negli anni, anche aumentando il volume dell’azienda, che nel frattempo è diventata una multinazionale, si è sempre mostrata grande attenzione alla crescita interna dei percorsi di carriera. Poi è ovvio che si diversifica, se c’è bisogno di fare entrare in azienda profili più senior si cercano profili senior…».

Sul vostro sito sono indicate cinque macroaree di intervento: forza lavoro e diversità, formazione, evoluzione del mercato del lavoro, ambiente e volontariato. Come le affrontate?

«Le cinque aree sono nate con la strutturazione della nostra impalcatura dedicata alla CSR nel 2013-2014 e dall’analisi delle esigenze degli stakeholder che avevamo individuato, partendo soprattutto dagli stakeholder interni. Sono state confermate, con diversi pesi tra l’una e l’altra, negli ultimi anni per incrociare i punti di vista interni aziendali e l’importanza che a questi obiettivi danno i diversi stakeholder esterni. Ci sono aree che coincidono nell’attenzione di entrambi (interni/esterni) e altre che ci poniamo un po’ più come una sfida. L’attenzione all’ambiente, per esempio, non è una nostra primaria necessità perché per nostra fortuna non abbiamo impatti ambientali rilevanti. Anche in quest’ambito riconosciamo però che ci sono azioni che si possono porre e quindi lo stimolo è quello di prestare attenzione alle risorse su cui impattiamo, per prima cosa la riduzione di utilizzo della carta che ci spinge ad andare sempre più verso la digitalizzazione. Un altro passo è quello dell’attenzione all’utilizzo dell’energia per le insegne, ad esempio, che prima erano al neon e adesso sono a led, nell’intento di avvicinarci quanto più all’energia rinnovabile. Senza contare l’utilizzo di energia 100% rinnovabile a cui siamo passati negli ultimi anni».

Le altre aree coincidono maggiormente con la vostra attività…

«Sì, certo. Il nostro approccio al volontariato si esprime sia sotto la forma del volontariato d’azienda, rappresentato dal fil rouge che accomuna il maggior numero di attività per l’employability, sia riguardo le tante iniziative più di nicchia portate avanti, promosse o proposte da singoli dipendenti e che poi coinvolgono altri colleghi. Le aree che riguardano il lavoro, comprese quelle dell’attenzione alla formazione e all’evoluzione del mercato, coincidono in tutto e per tutto alla nostra attività e sono quelle che ci sono maggiormente richieste da stakeholder esterni e interni. In ambito di formazione c’è una complessità che cresce con lo sviluppo dell’azienda e che nasce dalla necessità di allineare tutte le persone presenti sui vari territori. Solo in Italia Gi Group conta più di duecento filiali e più di 1.200 dipendenti. Ovviamente la parte di formazione diventa un veicolo fondamentale per allineare non solo le prassi ma anche i valori».

Si avverte una sensibilità di Gruppo alla sostenibilitò?

«Sì, prendiamo ad esempio Destination Work che è la nostra iniziativa più recente: abbiamo avuto richieste di partecipazione dai componenti del management fino agli stagisti, dal personale di filiale, così come dai colleghi degli uffici della sede centrale, e tutti hanno usato l’occasione per mettersi in gioco, indipendentemente dal tipo di attività lavorativa che svolgono quotidianamente».

Riuscite a comunicare in modo efficiente, all’interno e all’esterno, la vostra attività di CSR?

«Il primo nostro approccio è interno, avviene attraverso la Intranet aziendale, che aiuta a creare e tenere viva la condivisione di questo valore. Poi comunichiamo esternamente, attraverso il sito, i canali social e con il supporto dell’ufficio stampa. A livello di CSR Report abbiamo scelto una veste abbastanza light. Per noi è un documento importante, un biglietto da visita da mostrare alle realtà, pubbliche e private, con cui ci troviamo a operare. Spesso prestiamo attenzione a quelli di altre aziende, anche nostre competitor, perché dal confronto possono sempre scaturire nuove idee, nuove riflessioni».

L’argomento Bcorp vi interessa?

«La sfida che più ci interessa è quella che riguarda il portare avanti il nostro business, che è un business sociale. In questo ci sentiamo già intrinsecamente una Bcorp, e mettiamo quotidianamente tutta l’attenzione e la passione possibile nel nostro lavoro. Il passaggio formale a Società Benefit è una strada su cui stiamo ragionando».

 

“Destination work”, la CSR a sostegno della employability

DSC_8049.jpg“Destination work” è l’iniziativa di CSR che da tre anni coinvolge i dipendenti di Gi Group sparsi in tutto il mondo, che dedicano il tempo libero per sostenere i candidati nell’aumentare la loro employability, cioè la capacità di acquisire e mantenere un impiego professionale.

Nel corso del 2016, più di 680 volontari hanno dedicato 7.500 ore a oltre 5mila persone in cerca di un’occupazione. Tutte queste iniziative sono state un’importante occasione per condividere il “know-how” del Gruppo e riscoprire come, con l’attività quotidiana, è possibile fare la differenza nella vita delle persone e contribuire attivamente allo sviluppo del mercato del lavoro. Nel 2017 l’appuntamento italiano di “Destination Work” ha avuto luogo sabato 18 novembre, giorno in cui sono stati offerti a giovani e meno giovani suggerimenti mirati e consigli utili nell’approccio al mondo del lavoro, con workshop a Milano, Roma e Torino e attività di orientamento in molte altre città italiane.

L’equivalente del costo lavorativo del personale Gi Group che ha aderito all’iniziativa è stato destinato a organizzazioni impegnate nel contrasto alla dispersione scolastica e nel reinserimento dei giovani o di fasce deboli della popolazione in percorsi di formazione e professionalizzazione.

 

Il “Chi è” di Gi Group

Palazzo del Lavoro, nuovo marchio quadrato cut_sizeChi è: Gi Group è la prima multinazionale italiana del lavoro nonché una delle principali realtà a livello mondiale nei servizi dedicati allo sviluppo del mercato del lavoro

Anno di fondazione: 1998

Sede centrale: Milano

Mission: contribuire, da protagonisti a livello globale, all’evoluzione del mercato del lavoro e dell’educazione al valore personale e sociale del lavoro

Valori: il lavoro, l’attenzione, l’economicità, l’apprendimento continuo e l’innovazione, la responsabilità, lo spirito di squadra

Presenza nel mondo: 40 Paesi in Europa, Asia Pacifica, America e Africa. Oltre 500 filiali, più di 2.900 dipendenti

Attività: nel 2016 Gi Group ha servito più di 12mila aziende con un fatturato di 1,66 miliardi di euro

Brand del Gruppo: Gi Group (lavoro temporaneo, permanent e professional staffing), Wyser (ricerca e selezione), EXS (executive search), OD&M consulting (consulenza HR), Intoo (supporto alla ricollocazione), Asset Mgmt (percorsi di formazione e sistemi di sviluppo del personale), Gi Formazione (formazione finanziata), Gi HR Services (am- ministrazione HR), Gi BPO-C2C – Gi On Board (outsourcing).

 

Articolo pubblicato sul magazine CSROggi n. 5 (anno 3 n.1) gennaio 2018

Fondazione Francesca Rava, sempre dalla parte dei bambini

Fondazione Francesca Rava, sempre dalla parte dei bambini

Nata nel 2000, la fondazione con sede a Milano offre un aiuto concreto ai bambini in situazioni di disagio in Italia e nel mondo. Come dimostrano gli interventi prestati, tra l’altro, per i terremoti di Haiti e del Centro Italia e per l’emergenza migranti del mare Mediterraneo.

fondazione-francesca-rava.jpgLa Fondazione Francesca Rava è nata a Milano nel 2000 per ricordare quanto Francesca amasse la vita. «La perdita di mia sorella – dice Mariavittoria Rava, fondatrice e presidente della fondazione – ha stravolto la mia esistenza. Poi il destino ha fatto il resto, facendomi incontrare l’organizzazione umanitaria N.P.H. (Nuestros pequenos Hermanos, nostri piccoli fratelli), che è un’organizzazione umanitaria internazionale fondata nel 1954 in Messico e che oggi opera in 9 Paesi dell’America Latina tra i quali Haiti, Paese cui siamo oggi molto legati».

Da quell’incontro è nata Fondazione Francesca Rava–NPH Italia Onlus un’organizzazione che oggi coinvolge tantissimi volontari. Da quelli che partecipano ai vari progetti, oltre 2mila su tutto il territorio nazionale per In farmacia per i bambini, ai medici che si susseguono in team sulle navi della Marina Italiana, più di 200, a coloro che decidono di andare a lavorare nelle Case NPH in America Latina, circa 200 ogni estate.

Un aiuto per l’infanzia in condizioni di disagio

La mission di Fondazione Francesca Rava è offrire un aiuto concreto ai bambini in situazioni di disagio in Italia e nel mondo. Il motto di NPH è “Un bambino per volta, dalla strada alla laurea”. Per questo il concetto di infanzia viene dilatato fino al punto in cui i bambini presi in carico – bambini di strada, orfani, abbandonati o che non hanno nessuno al mondo o hanno i genitori ma sono troppo poveri, o dediti alla prostituzione o, ancora, in prigione – non raggiungano la maturità per uscire dalle case di NPH, o perché hanno finito gli studi o perché hanno cominciato a lavorare.

mariavittoria-rava-6-haiti.jpg«Nelle case NPH in America Latina – sottolinea Mariavittoria Rava – i bambini crescono sotto la nostra tutela in via continuativa, non in affido temporaneo. La loro permanenza varia a seconda delle scelte di vita che decidono di fare. Alcuni escono a 18 anni per iniziare una professione che può essere quella di coltivatore, estetista, parrucchiera, falegname. Altri decidono di studiare e quindi escono solo una volta laureati. Escono dalle case, insomma, solo quando sono in grado di provvedere a sé stessi e hanno la possibilità di formarsi una famiglia e di contribuire con la loro attività alla comunità in cui vivono».

L’applicazione pratica, questa, dell’idea di Padre Watson, fondatore di NPH: «La misura del successo del nostro lavoro non è quanti laureati riusciamo ad avere, ma quanti ragazzi arrivano a essere autonomi e in grado di contribuire ad aiutare gli altri».

Sei scuole consegnate ai bambini terremotati

Fondazione Rava non opera solo in America Latina. «Quello che abbiamo imparato in NPH lo stiamo portando in Italia – spiega la presidente –. Per esempio in Haiti 2010, con il terremoto, abbiamo mandato molti volontari per aiutare per il colera, per i soccorsi. Quando abbiamo cominciato a intervenire anche nel Mediterraneo, prestando assistenza medica ai migranti raccolti in mare dalle navi della Marina Militare con pediatri, ginecologi e medici d’urgenza, abbiamo chiamato per primi i volontari che erano stati in Haiti.

norcia_maternaQuando poi c’è stato il terremoto in Centro Italia, tanti donatori ci hanno chiamato: “Vogliamo aiutare i bambini italiani tramite voi perché ci fidiamo del vostro lavoro”. Siamo riusciti a consegnare sei scuole ai bambini del Centro Italia. Il primo giorno di lezione – insieme a Martina Colombari, nostra amica e volontaria da tanti anni – ho suonato la campanella a Norcia, in una delle tre scuole che abbiamo consegnato in primavera. Ci sembra una cosa molto bella, molto concreta, avere realizzato in così poco tempo, con l’aiuto di molte aziende, questo importante traguardo».

Il rapporto con gli ospedali pediatrici

malnutrizione fotoFondazione Francesca Rava ha da sempre un rapporto privilegiato con i principali ospedali pediatrici italiani, come il Buzzi a Milano, il Bambino Gesù a Roma, il Gaslini a Genova, per la formazione professionale dello staff dell’Ospedale Saint Damien. «Il cuore del nostro lavoro è proprio l’ospedale pediatrico che abbiamo in Haiti – precisa Mariavittoria Rava –. È stato realizzato da noi, su progetto italiano, e inaugurato nel dicembre 2006. È stato al centro dei soccorsi internazionali quando c’è stato il terremoto del 2010: la protezione civile italiana aveva la sua base nel nostro ospedale pediatrico, così come la Marina Italiana, che era presente con la portaerei Cavour».

La supervisione dell’ospedale è affidata a padre Rick Frechette, che è arrivato in Haiti nel 1987 per fondare la prima casa orfanotrofio NPH, rendendosi conto della quantità di bambini moribondi che arrivavano all’orfanotrofio e del bisogno che c’era della presenza di un medico. Per questo a 36 anni ha ricominciato a studiare medicina e si è laureato.

Padre Rick Ph. Giles AshfordOggi come direttore di NPH Haiti e dell’affiliata Fondazione Saint Luc, dove lavorano i ragazzi cresciuti nella prima Casa NPH sull’isola, rimasti per aiutare la loro gente negli slums, gestisce una squadra di 1.600 haitiani che assistono ogni giorno migliaia di bambini in scuole di strada, centri per bambini disabili, un orfanotrofio con 600 bambini e una baby house.

«C’è anche un centro di formazione professionale – conclude la presidente della Fondazione – che abbiamo costituito noi e che si chiama “Francisville Città dei mestieri”. Comprende un panificio, un pastificio, una sartoria, un allevamento di pesci e rappresenta l’attuazione di un processo sostenibile che si basa sul fatto che nelle scuole di strada possiamo distribuire pane e pasta che sono prodotti lì, a pochi metri di distanza dagli edifici che accolgono i ragazzi».

Fondazione Francesca Rava. NPH Italia Onlus

fondazioneravaLa Fondazione Francesca Rava aiuta l’infanzia in condizioni di disagio e rappresenta in Italia l’organizzazione internazionale Nuestros Pequeños Hermanos (NPH, I nostri piccoli fratelli), che dal 1954 accoglie i bambini orfani e abbandonati nelle sue case e ospedali presenti in nove Paesi dell’America Latina. Tra questi la poverissima Haiti, dove si trova l’Ospedale Pediatrico NPH St. Damien.

In Italia Fondazione Rava ha ricostruito sei scuole per i bambini del Centro Italia colpito dal terremoto; è presente con volontari di primo soccorso sanitario ai migranti, in particolare bambini e donne incinte sulle navi della Marina Italiana nel Mediterraneo; aiuta famiglie e minori colpiti da povertà sanitaria con “In farmacia per i bambini”, insieme a KPMG lotta contro l’abbandono neonatale con il progetto “ninna ho” (www.ninnaho.org).

È possibile sostenere le attività della Fondazione anche in occasione del Natale, scegliendo per partner, collaboratori, clienti, amici i doni solidali e biglietti augurali che aiutano i bambini di Haiti e la ricostruzione delle scuole in Centro Italia.

Info: http://www.nph-italia.org

In farmacia per i bambini

bi3u6986.jpgIl 20 novembre 2017, giorno in cui ricorre la “Giornata Mondiale dei diritti dell’Infanzia” Fondazione Rava organizza la quinta edizione di “In farmacia per i bambini”, l’iniziativa di raccolta di farmaci da banco e prodotti a uso pediatrico che ha come partner istituzionali Federfarma e Cosmofarma.

Un’importante azione di responsabilità sociale che vede coinvolti farmacie (nel 2017 saranno più di 1.300), volontari che nelle farmacie aderenti invitano i clienti a partecipare alla raccolta e aziende che donano i loro prodotti.

Tra questi, molte espressioni di volontariato delle aziende che partecipano al progetto, come KPMG, Eco Eridania, Chiesi Farmaceutici, Mellin, Lierac, Anallergo, Silc-Trudi Baby care. Nel 2016 la raccolta di 163mila confezioni è stata donata a 282 case famiglia ed enti che aiutano i bambini sul territorio delle singole farmacie e in Haiti all’Ospedale Pediatrico N.P.H. Saint Damien, che assiste 80mila bambini l’anno.

Info: infarmaciaperibambini.nph-italia.org

(Articolo pubblicato sul magazine trimestrale CSROggi n. 4, settembre 2017)

SEA, quando la responsabilità d’impresa prende il volo

SEA, quando la responsabilità d’impresa prende il volo

Sebastiano Renna, Head of Corporate Social Responsibility di SEA: « Sin dal 2012 tutti i nostri principali responsabili aziendali vengono riuniti quadrimestralmente nel Sustainability Committee per analizzare le linee guida per lo sviluppo, l’implementazione e il monitoraggio delle politiche di sostenibilità da integrare nel nostro modello di business».

 

Il Gruppo SEA (Società Esercizi Aerportuali) gestisce il sistema aeroportuale milanese. In particolare, SEA e le società che fanno parte del Gruppo gestiscono e sviluppano gli aeroporti di Milano Malpensa 1, Milano Malpensa 2 e Milano Linate.

Realtà che hanno un forte impatto sull’ambiente e sulla qualità della vita di chi vive in loro prossimità. Proprio per questo il gruppo SEA da tempo si mostra sensibile a progetti di sostenibilità pensati per coinvolgere tutti, dai dirigenti ai dipendenti ai milioni di viaggiatori che ogni anno partono e arrivano negli scali milanesi.

Parliamo di questa sensibilità con Sebastiano Renna, Head of Corporate Social Responsibility di SEA.

Quello della sostenibilità è un concetto presente in SEA da lungo tempo. Il vostro primo bilancio specifico risale al 2007. Quali passi avanti sono stati fatti dalla vostra azienda in questi dieci anni?

IMG_7632«La pubblicazione di un bilancio di sostenibilità non è di per sé garanzia di un approccio maturo e consapevole alla CSR da parte dell’azienda. Il nostro bilancio di sostenibilità in questi dieci anni si è molto evoluto, diventando un report che si presenta allineato alla più diffusa guideline internazionale (GRI), asseverato da certificatori esterni, caratterizzato da un’analisi di materialità tra le più approfondite in assoluto. Ma non è una accountability più raffinata la cartina al tornasole dei passi avanti che abbiamo compiuto. I veri progressi li abbiamo ottenuti quando abbiamo preso coscienza dei nostri limiti e abbiamo deciso di fare qualcosa per superarli. Un esempio di rilievo: l’impasse generata dal non felice esito dell’iter autorizzativo del piano di sviluppo di Malpensa, a causa dell’opposizione degli stakeholder del territorio, ci ha spinto a resettare il processo e ripresentare nel 2015 un nuovo piano al 2030 centrato su dialogo e confronto con gli stakeholder. Il processo di engagement che abbiamo realizzato ha anticipato le prassi che sarebbero state introdotte dalle normative sulla nuova VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) e sul “debàt public” per le grandi opere infrastrutturali. Stiamo insomma lavorando sul mindset manageriale con l’obiettivo di accentuare la capacità di contestualizzare i progetti di business e ampliare il set delle variabili di scenario da prendere in considerazione. Valutare adeguatamente le conseguenze e gli impatti delle decisioni aziendali sulla qualità delle relazioni con gli stakeholder consente di prevenire o gestire efficacemente le eventuali retroazioni negative da parte di questi ultimi, con impatto su costi, tempi, efficacia dei progetti di business».

Per quanto riguarda la CSR, avete creato un Comitato interno dedicato allo sviluppo sostenibile. Da chi è composto e di che cosa si occupa, nel dettaglio?

«Sin dal 2012 ci siamo dati un modello di governance dei progetti di sostenibilità che contempla il coinvolgimento di tutti i principali responsabili aziendali, che vengono riuniti quadrimestralmente nel Sustainability Committee per analizzare le linee guida per lo sviluppo, l’implementazione e il monitoraggio delle politiche di sostenibilità da integrare nel nostro modello di business. Al Sustainability Committee, guidato dal Presidente, partecipano i Chief aziendali e i responsabili delle Direzioni/Funzioni a loro diretto riporto».

Quali sono i progetti più significativi nell’ambito della sostenibilità da voi realizzati in questi anni?

«Cito tre iniziative. La prima è la definizione, nel 2015, di un nuovo Sistema Etico costituito da 3 statement: il Codice di Condotta, la Vision Etica e Diamante dei Valori e i Principi di Relazione con gli Stakeholder. Avevamo rilevato necessità di affiancare ai contenuti “rules-based” – tipici di un Codice Etico ispirato al Modello 231 – dei contenuti “values-based”, basati su impegni reciproci tra azienda e stakeholder (primi tra tutti i dipendenti) e finalizzati a indirizzare i destinatari all’adozione di criteri di decisione e comportamento basati sull’attuazione – in maniera autodeterminata e responsabile – di un nucleo di principi etici condivisi. Questo processo ha seguito una metodologia bottom-up. Un gruppo di lavoro comprendente colleghi di tutti gli inquadramenti professionali ha autonomamente lavorato sugli statement, alimentando la propria riflessione attraverso focus group e web discussion, ecc. che hanno ulteriormente ampliato il bacino di coinvolgimento».

E gli altri due progetti?

«Il secondo è relativo all’ottenimento, quest’anno, della certificazione Family Audit, che impegna la nostra azienda a realizzare un articolato piano triennale di interventi – elaborati da un gruppo di lavoro costituito da dipendenti di tutte le aree e gli inquadramenti professionali – finalizzati a migliorare la conciliazione famiglia-lavoro, alcuni dei quali già in corso di attuazione. Il terzo progetto è “The Social Challenge”, un processo di selezione di progetti sociali partecipato dai dipendenti, che possono presentare un progetto di una realtà non profit a loro nota e farsene sponsor presso l’azienda.MILANO LINATE_0182 In parallelo viene sollecitata la partecipazione, attraverso un bando, delle piccole realtà non profit, invitate a presentare progetti che vengono posti all’attenzione delle persone di SEA attraverso la intranet aziendale, per consentire a chiunque in azienda di diventarne sponsor. I progetti presentati e quelli adottati vengono poi selezionati da una Commissione di esperti (in prevalenza esterni all’azienda) e i progetti finalisti vengono votati attraverso un referendum on-line dalla comunità aziendale, che designa i 6 progetti (più uno speciale) che si aggiudicano 10 mila euro ciascuno. Ho citato queste 3 iniziative non tanto per ciò che rappresentano in sé, ma per il fatto che c’è un filo rosso che li unisce e che definisce molta della nostra filosofia di CSR. I valori e i principi dell’azienda non sono stati riscritti attraverso il classico workshop tra board e società di consulenza. Le iniziative di miglioramento del benessere lavorativo non sono frutto dell’autoderminazione della Direzione HR. Le decisioni di investimento sociale non sono prese in maniera autoreferenziale dall’area CSR. In tutti e tre i casi abbiamo sostituito le decisioni normalmente prese dagli “specialisti” con processi inclusivi e aperti in cui gli specialisti svolgono un ruolo di regia e si avvalgono del contributo di coloro che poi rappresentano i terminali di quelle decisioni. I manager devono diventare sempre più “costruttori di contesti”, rinunciando al decisionismo solipsistico. Ne guadagnano la qualità delle decisioni ma anche l’applicabilità delle stesse al contesto al quale sono riferite».

Quali sono i progetti che pensate di realizzare nell’immediato futuro?

2006_12_09 087«Nel 2016 è partito il progetto “Valori in corso”, un piano di change management fondato sull’implementazione dei corporate values nelle prassi manageriali, in diretta connessione con i contenuti del Piano Industriale 2016-2021. L’obiettivo è ricondurre al minimo comune denominatore dei Valori i nostri soft asset (mindset, dinamiche decisionali, stili di leadership), rendendo il tutto sinergico e funzionale alla strategia di business. L’accountability in merito alle nostre strategie, ai nostri processi e ai nostri impatti non è circoscritta alla sola realizzazione del Bilancio di Sostenibilità. Da 5 anni abbiamo in corso una partnership con il gruppo di ricerca del CeRST-LIUC che ha l’obiettivo di misurare, in maniera sempre più precisa e affidabile, le esternalità socio-economiche generate, su scale territoriali diverse, dai nostri aeroporti di Malpensa e Linate. L’obiettivo è da un lato definire il ruolo economico che i nostri aeroporti rivestono nel contesto lombardo e nazionale, dall’altro supportare modalità ottimali di confronto con il territorio».

I vostri progetti riguardano solo l’Italia o si spingono anche oltre confine?

«Stiamo lavorando con grande soddisfazione con la Fondazione Opes, qualificato fondo di impact investing. Abbiamo acquisito in tal modo il ruolo di erogatore di capitale filantropico da investire – attraverso Opes – in imprese economicamente sostenibili, capaci di favorire il progresso sociale e l’emancipazione dalla povertà. I target che abbiamo individuato insieme a Opes sono imprese sociali già esistenti – a uno stadio iniziale di sviluppo e che stiano cercando di validare il proprio business model – localizzate in Africa (Kenya e Uganda). Noi crediamo che l’impact investing sia il più avanzato ed efficace approccio possibile alla questione dell’autosviluppo del Sud del mondo e, quindi, la migliore risposta possibile per dare sostanza al concetto dell’“aiutiamoli a casa loro”, che altrimenti rischia di essere niente più che uno slogan».

Spesso si parla di aeroporti e di problemi di impatto ambientale. Qual è la vostra visione in merito?

Linate«È una visione molto laica. È indubbio che un’infrastruttura come un aeroporto, che occupa decine di ettari di territorio, dove ogni anno avvengono migliaia di decolli e atterraggi e transitano milioni di passeggeri e centinaia di migliaia di tonnellate di merci, dove ogni giorno si recano al lavoro decine di migliaia di persone, produca delle esternalità ambientali di cui è necessario prendersi cura. Noi in questi anni ci siamo dotati di strumenti e processi per cercare di farlo al meglio delle nostre possibilità: siamo “neutrali” in termini di emissioni di CO2 sin dal 2010 (tra i primi gestori aeroportuali in Europa insieme ad alcuni scali scandinavi), abbiamo sistemi di gestione certificati sull’energia e sull’ambiente, siamo all’interno di gruppi di lavoro internazionali dedicati alla sperimentazione di nuove soluzioni per la riduzione dei consumi idrici, energetici e delle emissioni di rumore. Qualunque sia però il livello di committment ambientale adottato, la dialettica con gli stakeholder si gioca anche sulla capacità del gestore aeroportuale di accreditare il profilo di public interest della propria attività e di saper misurare e rendicontare le esternalità positive (prevalentemente socio-economiche, ma non solo) legate alla presenza di uno scalo aeroportuale. Non c’è quindi solo il discorso della riduzione dell’impatto ambientale, ma anche del saper ben rappresentare in ragione di quali benefici sistemici quell’impatto viene generato».

In conclusione, quali caratteristiche ritiene debba avere un aeroporto per essere considerato “sostenibile”?

MILANO LINATE_0125«La crescita di connettività aerea diretta, che rende possibile la mobilità di persone e merci su grandi distanze con tempi e costi economicamente congrui, è la missione imprenditoriale di un gestore di aeroporti come SEA. La connettività aerea diretta alimenta l’economia di un territorio in termini di commercio, turismo, investimenti esteri, incrementi di produttività del sistema manifatturiero. Questa missione viene perseguita ormai in un contesto caratterizzato da fenomeni di trasformazione, spesso anche perturbativi, sempre più ravvicinati e invasivi. Nel mondo del trasporto aereo gli ultimi 5-10 anni hanno registrato una densità di fattori di cambiamento superiore a quella che aveva caratterizzato i precedenti 50 anni. E c’è da scommettere che i prossimi 5 anni vedranno una accelerazione ulteriore di questo trend. Di fronte a tutto questo, l’innalzamento della capacità di risposta di chi gestisce nodi primari del network di trasporto globale è profondamente legata alla sua capacità di aprirsi a profonde e sistematiche modalità di co-operazione con gli stakeholder. È su questo che si connota il profilo di sostenibilità».

Secondo lei il comparto auroportuale è pronto ad affrontare cambiamenti di questo tipo?

«Seconde me lo è e lo dimostra il fatto che realtà aeroportuali continentali caratterizzate da ottime performance e programmi di crescita ambiziosi stiano andando già da tempo proprio in questa direzione. Cosa spinge London Stansted a lanciare una open consultation sul proprio Piano di Sviluppo Sostenibile, centrato sulle misure strategiche da adottare per dare risposta all’incremento di domanda di trasporto aereo, puntando al contempo a mantenere invariata la propria impronta ecologica? Perché l’aeroporto di Copenaghen ha lanciato il portale di crowdsourcing “CPH Ideas” attraverso il quale si propone di raccogliere spunti, opinioni, commenti e riflessioni da parte di passeggeri, clienti, operatori economici in merito al modello di aeroporto futuro che hanno in mente? Come mai Swedavia ha promosso un “International Swedavia Airport Innovation Challenge”, chiedendo aiuto a tutti i propri stakeholder sulla individuazione di smart solutions riguardanti la riduzione del rumore che colpisce l’area residenziale di Bromma, presso l’aeroporto di Stoccolma? Ciascuno è libero di avere una propria opinione in merito. Ma sarebbe alquanto bizzarro pensare che tutto questo non abbia niente a che vedere con il mettere mano a un modello di business che deve essere in grado di fronteggiare cambiamenti epocali e che lega il conseguimento del valore economico alla capacità di ripensarne i meccanismi in profonda sinergia con tutti gli stakeholder depositari di quelle competenze che, ormai, nessuna azienda può sognarsi di accumulare all’interno del proprio perimetro. Anche SEA si sente chiamata a partecipare a questa evoluzione».

 

Linate_Malpensa

 

(Articolo pubblicato sul magazine trimestrale CSROggi n. 4, settembre 2017)

 

Rendersi conto per rendere conto

Rendersi conto per rendere conto

Cristiana Rogate, fondatrice e CEO di Refe Srl, società di strategie di sviluppo responsabile: «Affianchiamo organizzazioni pubbliche e private per affrontare le sfide della complessità, rinforzando fiducia, credibilità ed efficacia gestionale e comunicativa».

 

Cristiana Rogate si occupa di responsabilità sociale ormai da due decenni. L’inizio del suo percorso in questo ambito risale infatti a quando nel nostro Paese di questi temi si cominciava giusto a parlare, grazie agli echi che provenivano da oltre oceano, in particolare dagli Stati Uniti d’America. Un percorso che l’ha portata a fondare “Refe, Strategie di Sviluppo Responsabile”, che offre formazione e consulenza sulla base della metodologia “rendersi conto per rendere conto®”.

Dottoressa Rogate, quando e perché è nato il suo interesse per la responsabilità sociale e la sostenibilità?

d4s_8943-modifica.jpg«È nato più di 20 anni fa, quando mi sono resa conto che in Italia le uniche realtà che iniziavano a parlare di responsabilità sociale erano le aziende profit, che allora lo intendevano prevalentemente in una logica di washing. Del resto, a quei tempi non esisteva in Italia né una cultura né un sistema di regole capace di favorire politiche autentiche di responsabilità sociale. Ho pensato dunque che fosse necessario coinvolgere in prima battuta il mondo istituzionale, perché le istituzioni costruiscono il sistema di norme, di valori e di comportamenti all’interno dei quali agiscono i soggetti privati, singoli e associati, profit e non profit».

E così è nata Refe…

«Esatto, Refe è nata con la chiara visione imprenditoriale di sensibilizzare in primis le nostre istituzioni sul tema della responsabilità sociale. La missione stessa del sistema pubblico consiste nel respondere alle istanze sociali e di conseguenza adottare strumenti di rendicontazione sistematica e puntuale, che aiutino i cittadini a verificare l’utilità effettiva e il valore pubblico prodotto dalle scelte e dalle attività dell’ente sul territorio e le comunità di riferimento. Il primo passaggio è stato quello di strutturare una metodologia di lavoro orientata ad aumentare credibilità ed efficacia. La prima attività riguarda la dimensione comunicativa e relazionale, quella del “rendere conto” di come l’istituzione interpreta e realizza la sua missione sociale, rinforzando così la relazione di fiducia nei confronti dei cittadini. Ma ben presto ci siamo resi conto di un aspetto fondamentale: per dare conto in modo chiaro e attendibile di scelte, attività e risultati è fondamentale partire dalla consapevolezza interna del sistema di obiettivi e del loro grado di raggiungimento. Una consapevolezza che nella maggior parte dei casi non esisteva. Per questo una rendicontazione rigorosa e di qualità richiede preliminarmente la fase del “rendersi conto” – un’analisi interna condivisa e partecipata tra i diversi livelli dell’organizzazione che metta nero su bianco le caratteristiche identitarie e strategiche, il suo funzionamento e l’impiego delle risorse e i risultati e gli effetti prodotti tramite le sue attività».

Da qui è nata la frase chiave, quella che riassume la vostra metodologia: “Rendersi conto per rendere conto”?

logo+rendersicont 02_02«Sì, le nostre attività sono ben riassunte da questa formula che è stata inizialmente applicata al sistema pubblico per poi estendersi a tutti i soggetti della polis. Nella fase del “rendersi conto” Refe affianca le organizzazioni per costruire – in modo condiviso e partecipato con i principali livelli di responsabilità – sistemi di programmazione e controllo strategico e operativo orientati alla misurazione puntuale non solo degli output ma anche degli outcome prodotti dalle performance sociali, economiche e ambientali. L’applicazione del metodo Refe in questa fase aiuta a rinforzare motivazione e responsabilizzazione di ciascuno sugli obiettivi dell’organizzazione, orientando con maggiore chiarezza l’azione interna e abituando a una verifica non autoreferenziale dei risultati. Gli esiti del rendersi conto alimentano la fase del “rendere conto” nella quale Refe lavora principalmente su accountability, comunicazione e partecipazione: bilancio sociali e di sostenibilità, rendicontazione di metà e fine mandato, processi partecipativi e di stakeholder engagement. Questa fase aiuta l’organizzazione a rinforzare il posizionamento distintivo presentandosi in modo trasparente, chiaro e credibile agli stakeholder e a ottenere feedback utili e preziosi per migliorare i processi interni.

Oltre alle istituzioni pubbliche vi occupate anche dei privati. Come si è generato questo passaggio?

«È stato un passaggio naturale, che in un primo momento ha riguardato in particolare i soggetti privati che interagiscono con le pubbliche amministrazioni: le realtà del non profit, ma anche i privati, che hanno finalità di pubblica utilità quali ad esempio le multiutility. Poi siamo passati alle rappresentanze sociali, datoriali e sindacali perché se vuoi rinforzare responsabilità sociale e sostenibilità come leve di sviluppo di un sistema paese, devi far crescere non solo chi costruisce le politiche, ma anche i corpi intermedi che rappresentano i bisogni e i diritti dei destinatari dell’azione politica. A seguire abbia- mo cominciato a occuparci dei privati, che nel frattempo erano diventati più maturi e che ormai vivevano il tema della sostenibilità e della CSR come leva strategica. Nella scelta di rinforzare la nostra apertura al mondo privato abbiamo cercato un partner affidabile, con una lunga esperienza sul campo quanto noi e allineato ai nostri valori di riferimento. L’abbiamo trovato in Gabriele Badalotti, il nuovo socio di Refe dal 2016, che ci permette ora di affrontare la responsabilità sociale a 360°, come vera e propria leva di cambiamento del sistema Paese».

E veniamo al presente. Si può dire che oggi in Italia ci sia piena consapevolezza del valore della sostenibilità?

«C’è ancora molto da fare. È vero però che diversi studi internazionali di- mostrano che l’Italia è tra i primi paesi per livelli di accountability, in quanto le imprese hanno anche l’esigenza di investire in trasparenza e sostenibilità per compensare la scarsa credibilità delle nostre istituzioni e difendere la loro competitività. Nel mondo profit oggi l’accountability è percepita come un prezioso strumento per misurare e comunicare il vero valore dell’impresa e che permette di attivare processi di innovazione e sviluppo che migliorano la competitività e accrescono la sostenibilità dei prodotti e delle soluzioni sempre più richiesta dai mercati. L’accountability rappresenta quindi un’opportunità e in tal senso l’approvazione del DLgs 254/2016 sulla comunicazione delle informazioni non finanziarie non farà altro che accelerare un processo già in atto».

Quale rapporto avete con i vostri clienti?

«Quello che instauriamo con loro è un vero e proprio patto di alleanza per il cambiamento. Per loro non siamo semplici fornitori ma siamo riconosciuti come partner affidabili che li accompagnano con competenza e passione, aiutandoli a far crescere l’organizzazione tramite un metodo che produce effetti stabili e duraturi tanto sulle modalità di lavoro interne che sulla qualità delle relazioni con l’esterno. Riusciamo davvero ad accompagnarli a 360 gradi, assicurando che la dimensione strategico–gestionale e quella comunicativa e relazionale siano gestite in modo coerente e integrato alimentandosi l’una con l’altra. Questo è possibile grazie al fatto che personalizziamo il nostro percorso di formazione e consulenza in base alle caratteristiche, che li contraddistinguono, alla cultura, alla governace interna ed esterna, entrando in empatia con lo stile di gestione e relazione dell’organizzazione. Se il percorso varia a seconda del cliente, quello che invece resta costante è il nostro metodo, il “Rendersi conto per rendere conto®”, sempre valido, indipendentemente da missione, dimensioni, caratteristiche e territorialità».

In conclusione, che cosa bisogna fare oggi perché la CSR si sviluppi sempre più?

«Ritengo che si possano tracciare tre obiettivi di miglioramento, oggi che la tematica è considerata finalmente centrale. Riuscire a fare in modo che gli obiettivi dichiarati nell’ambito di processi di responsabilità sociale si realizzino nella realtà traducendosi in cambiamenti durevoli e positivi all’interno e all’esterno dell’organizzazione. Questa è la sfida e su questo siamo tutti corresponsabili, compresi noi consulenti che dobbiamo avere preparazione e competenze multidimensionali per far sì che la cultura della sostenibilità dispieghi appieno le sue potenzialità per tutte le tipologie di organizzazioni. Il secondo elemento riguarda la capacità di misurare – in una logica non autoreferenziale – gli effetti e gli impatti sociali, economici e ambientali. Ultimo elemento, collegato al precedente, è la capacità di attivare processi partecipativi costruttivi e utili per tutti coloro che ne prendono parte. Questi due ultimi aspetti trovano nella rendicontazione un “terminale intelligente”, in quanto fornisce gli elementi utili per una valutazione consapevole e informata da parte degli stakeholder alla base della co-costruzione di risposte politiche efficaci».

 

 

CHE COSA SIGNIFICA FARE RENDICONTAZIONE PER…

Bilanci sociali, ambientali, di sostenibilità, integrati… quale importanza e valenza hanno per le diverse tipologie di organizzazioni pubbliche, profit e non profit?

La Pubblica Amministrazione

Significa dare conto della delega fiduciaria che gli eletti hanno ricevuto dai cittadini. In questo caso il rapporto di accountability affonda le radici nel principio democratico di funzionamento della società. La capacità di includere i cittadini nelle scelte pubbliche è sempre più centrale, per cui la rendicontazione aiuta ad attivare una partecipazione di nuova generazione, in cui anche le nuove tecnologie possano essere utilizzate senza limitare la capacità critica dei cittadini.

Il mondo profit

Nel mondo profit l’attività di sustainability reporting è percepita come uno strumento strategico, utile a misurare e comunicare il valore dell’impresa che deriva dallo stretto legame tra performance economiche, sociali e ambientali. Permette inoltre di attivare processi di stakeholder engagement che favoriscono la crescita di una nuova cultura d’impresa, qualificando il posizionamento e la brand reputation nei confronti di un mercato sempre più evoluto, consapevole ed esigente.

Il mondo non profit

Per il non profit il Bilancio sociale aiuta l’organizzazione ad aumentare efficienza e trasparenza nella gestione delle risorse che provengono dal sistema pubblico, dai finanziatori privati e dai donatori e accrescere parallelamente l’efficacia di servizi e attività, in coerenza con la missione e i principi fondativi. Comunicare il valore sociale prodotto aumenta la visibilità, la credibilità e la capacità dell’organizzazione di attrarre risorse umane ed economiche, rafforzando le relazioni con tutti gli interlocutori.

 

IL WEB REPORTING, LA RENDICONTAZIONE DIVENTA SMART

«Il web reporting – spiega Cristiana Rogate – rappresenta a oggi la forma più innovativa di rendicontazione sociale e di sostenibilità. È un portale collegato o integrato al sito istituzionale, che comunica in modo efficiente e sostenibile, dinamico e interattivo i contenuti di un Bilancio Sociale, di Sostenibilità o di un Bilancio integrato.

rendicontazione_sociale.jpgIl web reporting consente di superare “l’approccio burocratico” alla rendicontazione rendendolo uno strumento realmente efficace per qualificare la comunicazione e la relazione con gli stakeholder.

A dimostrazione della centralità di questa nuova forma di rendicontazione nel novembre del 2015 il GBS, l’Associazione nazionale per la ricerca scientifica sulla rendicontazione sociale, ha attivato su mia proposta un Tavolo di Ricerca Nazionale coordinato dalla Prof.ssa Manes Rossi insieme a me al quale hanno partecipato 22 Università italiane.

I lavori si sono chiusi con la produzione del Documento di ricerca “Le nuove frontiere della rendicontazione sociale: il web reporting. linee di orientamento”, in corso di pubblicazione da Franco Angeli».

 

 

 

(Pubblicato a firma Carlo Rho sul magazine CSROggi n. 3, giugno 2017)

“La città del bene”, le buone notizie sul Corriere della Sera

“La città del bene”, le buone notizie sul Corriere della Sera

Si chiama “La Città del Bene” ed è lo spazio che il Corriere della Sera da ormai 10 anni dedica, nelle pagine della cronaca di Milano, al variegato mondo del Terzo Settore e della sostenibilità. Da più di un anno ne è responsabile Elisabetta Soglio, una delle persone che più hanno creduto fin dall’inizio all’importanza di raccontare ai lettori una parte di città che spesso rimane nascosta.

elisabetta_soglio1.jpgCom’è nata l’idea di creare le pagine della “Città del bene”?

«È nata grazie a un gruppo di giornalisti sensibili che ha pensato potesse essere utile dare la giusta risonanza alla cultura del bello e del buono. Un forte impulso, da questo punto di vista, era venuto dall’allora direttore della Gazzetta dello Sport, Candido Cannavò, che aveva molto sostenuto la necessità di dare le cosiddette “buone notizie”. Da questa pagina sono poi nati altri progetti che ancora oggi vanno nella stessa direzione come il canale internet, alcuni blog e il canale di Corriere Sociale che hanno riscosso subito un grande successo. Tornando alla “Città del bene”, oggi con il direttore Luciano Fontana abbiamo deciso di impostarla in una maniera sistematica per dare il senso di una presenza più forte sulla città. ».

Di che cosa parlate in queste pagine?

«Cerchiamo anzitutto di raccontare le storie più originali. Non tanto per andare alla ricerca di cose che facciano scalpore, quanto per spiegare in quale direzione si sta muovendo il mondo del Terzo Settore. Perché al di là delle moltissime storie di solidarietà che meritano di essere raccontate, in questo ambito stiamo assistendo a una ricerca sempre maggiore di professionalità e ci siamo accorti che si sta radicalizzando una visione del Terzo Settore come vera e propria prospettiva di vita collettiva. Vogliamo parlare soprattutto di questo, è una cosa più grande del raccontare soltanto piccole o grandi storie di solidarietà: è raccontare delle visioni».

È possibile tracciare un identikit del vostro lettore tipo?

«È difficile individuare un lettore tipo. Di sicuro “La città del bene” è letta dalle persone che operano nel Terzo Settore. Ma ci arrivano email e messaggi anche da persone che non hanno niente a che fare con questo mondo ma che, per esempio, hanno bisogno dei servizi di cui parliamo e di cui poco o niente sanno. Questa è il ruolo che più ci piace, quello della piattaforma attraverso cui è possibile conoscere la realtà, soprattutto quella meno conosciuta. C’è un’espressione che ho sentito di recente e che mi è molto piaciuta: “Il volontariato siamo noi, il terzo settore siamo noi”. È vero, perché il terzo settore ci tocca tutti, sono davvero poche le persone che nella loro vita non ne hanno mai avuto a che fare

Come si comunica meglio questo mondo? È meglio una macrocomunicazione o è più efficace l’andare sui casi specifici?

«In generale la modalità di racconto che funziona di più è quella della storia. Ma dietro la storia è necessario avere ben presente che cosa si vuole rappresentare, in senso più ampio. Il racconto non deve rimanere fine a se stesso, deve essere l’opportunità per raccontare qualcosa che possa essere utile a chi ti legge. Per fare un esempio: se raccontiamo la storia di una cooperativa sociale di tipo B al tempo stesso cerchiamo anche di spiegare che cosa sono le Bcorp. Il tutto senza dare niente per scontato, perché l’argomento è molto vasto e non è semplicissimo da interpretare. Noi siamo un giornale non specialistico, dobbiamo sempre partire dal fatto che il nostro lettore potrebbe non conoscere per nulla gli argomenti che sta leggendo».

Chi racconta questo mondo deve conoscerlo a fondo…

«Si, è necessario avere una grande professionalità, come in tutti gli altri campi con l’approssimazione si ottiene poco. Finché devi raccontare la storia di un’associazione può essere semplice, basta saper scrivere bene e avere e un po’ di sensibilità. Ma quando si entra nel dettaglio bisogna studiare bene l’argomento, conoscere le leggi, parlare con le persone esperte, leggere gli statuti. Insomma, fare un lavoro più approfondito. Secondo noi vale la pena farlo. Per questo lavoriamo molto con i colleghi della redazione economia, da cui prendiamo molti spunti e con cui cerchiamo di analizzare questo mondo a 360°, per poterlo poi raccontare nel migliore dei modi».

A questo proposito, quale ritiene possa essere il futuro della comunicazione applicata al mondo della sostenibilità?

«Il giornalismo non può più prescindere dal racconto di questa realtà, che in Italia conta 6 milioni di persone direttamente coinvolte, cui si aggiungono tutte le altre che ne beneficiano. Non si possono ignorare questi argomenti perché hanno ormai conquistato una valenza economica. A me interessa molto questo tema, sono convinta che la redazione di economia di ogni quotidiano dovrebbe avere una o due persone specializzate in questi argomenti. Per raccontarci in che direzione stiamo andando, cominciare a spiegarci che cosa si potrebbe fare, perché è importante farlo… Perché questo tema non riguarda soltanto le persone “buone”, riguarda tutti quanti: le imprese, le famiglie, la collettività genericamente intesa.

Parlare della riforma del Terzo Settore sulle pagine di un giornale non è così scontato, oggi per fortuna se ne parla un po’ di più ma in generale ancora molto resta da fare. Bisogna dire che la comunicazione sociale è invece molto popolare sui social. Anche noi per informarci usiamo spesso internet perché le associazioni comunicano tramite web, ci sono moltissime pagine Facebook che parlano di questi argomenti, moltissime esperienze online, proprio come CSRoggi, che ti aiutano a farti un’idea, a informarti e ad aggiungere conoscenze».

 

(Pubblicato sul magazine trimestrale CSROggi n. 3, giugno 2017)

Hug – Tap to Donate, l’app per fare del bene

Hug – Tap to Donate, l’app per fare del bene

Con pochi click, direttamente da smartphone o tablet, è oggi possibile sostenere – in modo trasparente, efficiente e garantito –, progetti che contribuiscono a migliorare la vita di molte persone.

 

Finalmente la tecnologia al servizio del sociale. Oggi è possibile fare del bene direttamente dal proprio smartphone o tablet grazie all’applicazione “HUG – Tap to donate”, lanciata sul mercato nell’autunno 2015 dalla società Do Solidale. Per il team in “rosa” della startup milanese, fare del bene è un gesto spontaneo e come tale deve rimanere.

«Tutti noi dobbiamo sentirci liberi di poter compiere una buona azione in qualunque momento e in compagnia di chi preferiamo – racconta Alice Corinaldi, Director del progetto –. Quale miglior modo se non direttamente dal nostro cellulare?».

Sapere dove vanno a finire i nostri soldi

alice_corinaldi«Le caratteristiche fondamentali della donazione con HUG sono la sicurezza e la tracciabilità», continua Alice Corinaldi. Con l’applicazione si dona in favore di progetti, iniziative concrete che aiutano a migliorare la vita di molte persone in Italia e nel mondo, proposti da Organizzazioni Non Profit (ONP) che vengono selezionate da Do Solidale.

Le realtà con cui la startup collabora comunicano in maniera trasparente il proprio operato, sottopongono il bilancio a revisione contabile e sono efficienti dal punto di vista dell’impiego delle risorse, ossia investono nei propri interventi non meno del 70% dei fondi raccolti. Infine, il donatore con HUG sa sempre dove vanno a finire i suoi soldi perché è sempre aggiornato sulla realizzazione del progetto sostenuto e sull’impatto generato. Le ONP hanno così a disposizione un nuovo canale per raccogliere fondi che ha come scopo quello di far riscoprire il piacere di donare alle persone e avvicina anche i giovani millenials al sociale.

Pochi euro per salvare la vita di un bambino

A oggi sono stati finanziati 31 progetti la cui implementazione sta portando aiuto a 13mila persone sul territorio italiano e in alcuni Paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’India e del Medio Oriente. Grazie a questa moderna piattaforma è possibile contribuire a programmi di cooperazione internazionale, assistenza sociale e sanitaria, di costruzione e ristrutturazione di scuole e comunità. Senza dimenticare l’acquisto di apparecchiature mediche specifiche.

«A volte possono bastare pochi euro per salvare la vita di un bambino, garantire il diritto all’istruzione e impegnarsi nella lotta alla malnutrizione nei Paesi in via di Sviluppo», conclude la responsabile del progetto.

Insomma, con un semplice tap su HUG oggi tutti possono fare la differenza!

 

COME FUNZIONA L’APP HUG – TAP TO DONATE ?

apple6_smart_home[1]Dopo aver scaricato l’app dagli store (App Store o Google Play) si accede alla homepage nella quale sono elencati i progetti attivi. Cliccando su quello che maggiormente si avvicina alla propria sensibilità, si trovano ulteriori informazioni e i contatori con l’obiettivo economico da raggiungere, la percentuale di fondi raccolti e i giorni mancanti. Con un tap su “Dona”, si seleziona l’importo da versare, si sceglie il metodo di pagamento, carta di credito o PayPal*, e si conclude l’operazione, che è possibile poi condividere con i propri amici attraverso i social network.

I principi fondamentali di trasparenza ed efficienza sono rispettati in tutto il flusso della donazione, che viene direttamente accreditata alla ONP, vincolata alla realizzazione del progetto scelto e gode dei benefici fiscali previsti dalla legge. (*PayPal è disponibile solo per i progetti delle ONP che accettano tale sistema).

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(Pubblicato sul magazine trimestrale CSROggi n. 2, marzo 2017 a firma Andrea Lisi)

Pierluigi Cerri e quella “semplice” linea rossa

Pierluigi Cerri e quella “semplice” linea rossa

“Less is more”, questa la filosofia alla base della vita artistica e professionale di Pierluigi Cerri, uno dei grandi protagonisti della storia creativa milanese, che ha fatto della semplicità, appunto, il suo marchio.

Dire che Pierluigi Cerri è semplicemente un architetto è come non dire niente. Perché basta scorrere il suo curriculum vitae per rendersi conto di come, nel suo caso, il significato che sottende alla parola “architetto” sia del tutto inadeguato. Meglio dire, allora, che Pierluigi Cerri – architetto, designer, creativo, progettista, scrittore, ecc. – è uno dei protagonisti della storia della creatività milanese, partita dagli effervescenti e stimolanti Anni ’60 e giunta fino ai giorni nostri, quelli in cui design e moda la fanno da padrone.

Pierluigi Cerri, lei ha iniziato la sua carriera nella Milano dei primi Anni ’60. Quali differenze ci sono, dal punto di vista della sua professione, con quella attuale?

Pierluigi Cerri ritratto di Filippo Fortis«Per quanto riguarda l’arte e la creatività, in quegli anni Milano era davvero una città europea, che offriva continui stimoli a chi frequentava il mondo della gallerie, delle librerie e dei cosiddetti “cenacoli”. Le avanguardie, le neoavanguardie e i maggiori artisti con le loro opere – da Pollock a Christo, da Tinguely a Ives Klein – erano di casa tra i Navigli e Brera. Per descrivere bene l’atmosfera che si respirava, basta pensare al fatto che nel 1964 la facoltà di architettura fu occupata – ed è stata forse la prima occupazione al mondo – perché gli studenti ritenevano che i docenti fossero troppo poco aggiornati rispetto al contesto internazionale. Oggi è diverso. Ci sono momenti di grande espressività, che coincidono con gli eventi legati al design e alla moda, ma per il resto si respira un’aria che è diventata un po’ troppo poco aperta verso l’esterno».

Parliamo proprio di design e moda, le due migliori espressioni creative della Milano di oggi. Sono il frutto delle esperienze artistiche e creative di quel passato che lei ha appena ricordato?

«Sì, di sicuro. Ma con in più la capacità della nostra industria di essere elastica, flessibile, capace di osare e di adattarsi alle trasformazioni, offrendo il meglio proprio in queste circostanze. Nel design, quello che negli Anni ’60 era pura creazione oggi è diventato griffe e riusciamo a venderlo in tutto il mondo. Anche per la moda è così: il pret-à-porter l’avranno anche inventato in Francia, ma solo l’industria italiana ha saputo realizzarlo in modo così efficace».

Lei interpreta la professione di architetto a 360 gradi, ma di che cosa preferisce occuparsi? C’è qualche progetto che non è riuscito finora a realizzare e pensa di poter portare a termine in futuro?

«Tutti mi riconoscono un certo eclettismo, concetto che a me piace molto, perché contrasta con quello di specializzazione, che invece non amo. Spesso mi chiedono “come fai a progettare una nave?”, io rispondo che si tratta solo di studiare, così come per ideare un ospedale o una sedia… Le cose che preferisco fare sono gli allestimenti, che sono piccole architetture effimere, che verranno smontate di lì a poco e che per questo ti consentono di fare sperimentazioni non possibili nel mondo reale. Cose da fare in futuro? Essere sempre informato sulle nuove esigenze e i nuovi concetti, come la sostenibilità e l’eco-compatibilità, per esempio».

C’è un oggetto che non si sarebbe mai immaginato di progettare e invece…?

«Di sicuro l’Evangeliario del Duomo di Milano, progettato su richiesta dell’allora Arcivescoco Tettamanzi. È stata per me un’esperienza incredibile, davvero coinvolgente e interessante».

Architetto Cerri, tra duecento anni, per quale aspetto della sua carriera professionale vorrebbe essere ricordato?

«Più che su una delle mie creazioni, mi piacerebbe essere ricordato – insieme ai componenti del mio studio – per il modo di concepire le cose, basato sul concetto del “Less is more”, il meno è meglio. Secondo il nostro modo di vedere, una cosa è ben riuscita quando è poco complicata e ha buone qualità funzionali. Mi piace pensare che i nostri oggetti siano in grado di esprimere in tutta semplicità l’idea che li ha concepiti. Quando mi chiedono: “Come hai fatto a pensare alla livrea di Luna Rossa?”, un marchio che ha avuto un successo strepitoso in tutto il mondo, mi piace rispondere che, in fondo, ho semplicemente tracciato una linea rossa…».

Una carriera professionale poliedrica, coronata da riconoscimenti e premi

Nato a Orta san Giulio (Novara) nel 1939, Pierluigi Cerri si laurea al Politecnico di Milano, dove in seguito insegnerà semiotica dell’architettura. Nel 1974 è socio fondatore della Gregotti associati. Nel 1976 dirige l’immagine della Biennale di Venezia. È stato redattore a “Casabella” e “Rassegna”. Suo il design di collane editoriali per varie case editrici italiane, fra cui Electa, Einaudi, Fabbri, Bompiani, Skirà. Ha progettato allestimenti nei più importanti musei d’europa, USA e Giappone. Ha vinto numerosi concorsi di architettura, tra i quali quelli relativi all’area Pirelli alla Bicocca a Milano e all’area per l’Esposizione Universale di Siviglia. A lui si devono il restyling di Palazzo Marino e la sede della Fondazione Pomodoro, a Milano.

Nel 1998 apre lo Studio Cerri & Associati con Alessandro Colombo. Ha progettato sedi espositive e curato la corporate identity di numerose società fra le quali Prada America’s Cup, Ferrari auto, Pitti immagine, i Guzzini, Pirelli. Si occupa anche di progettazione di navi da crociera per il gruppo Costa e di fashion concept, come nel caso delle nuove boutiques Trussardi. Tanti i premi ricevuti, tra cui il Compasso d’Oro per il tavolo “Titano” disegnato per Poltrona Frau nel 2001.

(Articolo pubblicato su “Pleiadi” Creval Magazine numero 61 – Ottobre 2012)